La guerra libanese del 1982 e l’indagine su Sabra e Chatila lasciano Israele sotto choc per un bel pezzo. I nemici, anziché indebolirsi, si rafforzano e si moltiplicano. Soprattutto l’Iran dell’ayatollah Khomeini, che nel ’79 ha spodestato lo Scià, prepara la bomba atomica (come pure l’Iraq, a cui Tel Aviv ha bombardato il suo reattore nucleare di Osiraq nell’Operazione Babilonia del 1981) e patrocina Hezbollah, il “partito di Dio” che riunisce un milione di sciiti nel Sud del Libano, ma è presente anche in Siria e nel Golan occupato da Israele. E martella con missili e razzi i kibbutz dell’Alta Galilea. Ogni guerra fomenta nuovo terrorismo, anziché spegnerlo. E dal 1981 è venuto a mancare un argine fondamentale all’estremismo: il presidente egiziano Sadat, assassinato da un killer della Jihad per punirlo della pace con Israele e rimpiazzato dal vice Hosni Mubarak. Neppure i palestinesi se la passano bene, sempre più ostaggi di Israele nei Territori, ma anche stritolati dai finti amici arabi che li usano per giocare ciascuno la propria partita. Arafat e gli altri capi dell’Olp, espulsi nel 1971 dalla Giordania dopo averla incendiata, vengono cacciati anche dal Libano e traslocano in Tunisia, con strascichi di polemiche interne per i troppi lussi.
La spaccatura nell’opinione pubblica israeliana si fa sentire alle elezioni del 1984: il Likud di Yitzhak Shamir, subentrato nell’83 a Begin, perde la maggioranza. Nasce un governo di unità nazionale guidato dal laburista Shimon Peres. Nel 1985 l’Olp di Arafat dimostra un’altra volta tutta la sua ambiguità: il gruppo Fplp del filosiriano Abu Abbas dirotta e sequestra in acque egiziane la nave da crociera italiana Achille Lauro. Arafat fa il doppio gioco: si dichiara estraneo al gesto, ma poi media col premier Bettino Craxi e il ministro degli Esteri Giulio Andreotti per la liberazione degli ostaggi. Però si scopre che i feddayin hanno trucidato a sangue freddo un anziano ebreo americano paraplegico, Leon Klinghoffer, gettandone il corpo e la carrozzella in mare. Il presidente Usa Ronald Reagan sospetta che Craxi voglia sottrarre i terroristi alla giustizia, fa dirottare l’aereo che li trasporta e lo costringe ad atterrare nella base Nato di Sigonella, per portarli in America e processarli. Craxi si scontra violentemente con lui e schiera i carabinieri sulla pista, bloccando il blitz dei marines. Poi però, dopo aver giurato che l’intero commando sarà giudicato in Italia, lascia fuggire Abu Abbas su un aereo jugoslavo a Belgrado, da dove il capo del Fplp raggiungerà lo Yemen e poi l’Iraq di Saddam Hussein. Le truppe di invasione americane lo scoveranno nel 2003 in una villetta appena fuori Baghdad e lo uccideranno.
L’Intifada. Nel 1987, ventennale dell’occupazione di Gaza e Cisgiordania, i palestinesi si rivoltano in massa contro Israele: è l’Intifada (“sollevazione”). Durerà sei anni, fra proteste, scioperi, boicottaggi, violenze e repressioni. Alla fine i morti palestinesi saranno circa 2 mila e gli israeliani 160. Le immagini dei ragazzini armati di fionde che lanciano sassi contro i soldati fanno il giro del mondo, campeggiano a lungo sui notiziari e sono un altro duro colpo per Israele, sempre meno Davide e sempre più Golia. Ma l’aspetto più mediatico dell’Intifada nasconde quello più truculento: il ruolo del neonato Hamas (acronimo di Movimento Islamico di resistenza), un’organizzazione politico-militare palestinese sunnita e fondamentalista filiata dai Fratelli musulmani egiziani, installata soprattutto a Gaza e finanziata dai regimi sunniti. Hamas ha un volto pubblico, che gestisce programmi sociali portando nella Striscia ospedali, scuole e biblioteche, si propone di distruggere Israele e tornare alla Palestina pre-1947 e polemizza con i vertici corrotti dell’Olp. Ma anche uno clandestino: l’ala militare delle Brigate al-Qassam, che organizzano e rivendicano attentati kamikaze contro obiettivi civili israeliani.
Gli Scud di Saddam. Nel 1988 Arafat dichiara di rinunciare al terrorismo e nel 1989 crolla il Muro di Berlino. La dissoluzione dell’Urss sembra portare un po’ di calma anche in Medio Oriente, ma è solo il preludio a una nuova tempesta. Il 2 agosto 1990 l’Iraq di Saddam invade e annette il Kuwait, minacciando l’Arabia Saudita. Il 17 gennaio 1991 la coalizione fra gli Usa di George Bush e altri 34 Paesi, inclusi gran parte di quelli arabi, ottiene l’avallo dell’Onu e scatena l’operazione “Desert Storm”, che in poco tempo caccerà l’Iraq dal Kuwait senza però rovesciare Saddam. La sera dell’attacco, Tel Aviv e Haifa vengono colpite da missili Scud iracheni: otto il primo giorno e 33 nelle cinque settimane successive, quasi sempre di notte. Israele, che non fa parte della coalizione, ripiomba nell’incubo: è dal 1948 che le sue città non venivano bombardate. I cittadini vivono per due mesi barricati nelle case o nei bunker, con le maschere antigas e le finestre sigillate col nastro adesivo, mentre l’esercito distribuisce fiale di atropina, nel timore – per fortuna infondato – che qualche testata sia caricata con agenti biologici o chimici, tipo Sarin e gas nervino. Arafat, in barba alla rinuncia al terrorismo, si schiera con Saddam: invita “musulmani e arabi a opporsi alla guerra americana e sionista contro un Paese fratello”, esalta “l’epica determinazione del popolo iracheno sotto il comando del mio fratello Saddam”, sostiene che l’uso del napalm da parte degli Usa dà all’Iraq “le ragioni e il diritto di usare armi chimiche” contro Israele. Ma il suo appello cade nel vuoto, a parte i giovani palestinesi dei Territori che esultano sui tetti a ogni suono di sirena e schianto di missile. Il bilancio delle vittime sarà molto più contenuto dello choc emotivo: due israeliani morti per gli Scud, qualche decina per infarto, migliaia di feriti e di senzatetto. E una vittoria ottenuta senza muovere un dito: una lezione che vale anche oggi.
Shamir vince, Arafat no. Al governo, dal 1986, c’è di nuovo il Likud di Yitzhak Shamir, che sotto la pioggia di Scud dà una formidabile prova di sangue freddo e lungimiranza: per la prima volta nella sua storia, Israele non risponde a un attacco nemico. Bush parla con Shamir e lo convince a soprassedere al blitz già pronto contro l’Iraq. In cambio, installa subito in Israele batterie anti-missile Patriot e dalle portaerei nel Golfo bombarda le rampe di lancio irachene. È chiaro che Saddam tenta di nobilitare con la causa palestinese la sua bieca mossa imperialista in Kuwait, trascinare in guerra Israele e spaccare la coalizione arabo- occidentale. Missione fallita.
A fare le spese della doppiezza di Arafat, che ancora una volta ha puntato sul cavallo sbagliato, è il suo popolo: appena liberato dagli invasori, il Kuwait espelle il mezzo milione di palestinesi che lì vivevano e lavoravano (il 30% della popolazione). Intanto le monarchie e gli emirati d’Arabia tagliano i fondi all’Olp. Il vecchio leader è a un bivio: o sparigliare i giochi e trattare la pace, o sparire. E sceglie la prima strada. Anche perché, dopo sei anni di Likud, nel 1992 in Israele tornano i laburisti: Rabin premier e ministro della Difesa, Peres ministro degli Esteri.
Miracolo a Oslo. Il 13 settembre 1993, dopo un anno di trattative top secret, mediate in parte dalle amministrazioni americane di Bush padre e di Bill Clinton (che s’è insediato alla Casa Bianca in gennaio) e in parte dall’Ue con l’avallo della Russia di Boris Eltsin, Rabin e Arafat firmano a Oslo uno storico accordo di pace. L’Olp rinuncia formalmente alla lotta armata e riconosce a Israele il diritto di esistere; Israele riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese, con il diritto di governare su una buona porzione dei territori occupati nel 1967. Nella Dichiarazione di principio su un’autonomia palestinese transitoria di cinque anni siglata dai due leader, Israele si impegna a ritirarsi entro il 1998 da gran parte della striscia di Gaza e Cisgiordania e di affidarle a una Autorità nazionale palestinese (Anp). La Cisgiordania sarà divisa in tre zone: la A sotto il pieno controllo dell’Anp, la B cogestita da palestinesi (per gli aspetti civili) e israeliani (per la sicurezza), la C (la più folta di insediamenti ebraici) ancora sotto Israele. Alcuni dei nodi più intricati – Gerusalemme, i rifugiati palestinesi e le colonie israeliane – sono rinviati a un nuovo negoziato. Rabin e Arafat vengono ricevuti sul prato della Casa Bianca da Clinton e dall’altro garante dell’accordo: il ministro degli Esteri russo Andrei Kozyrev. Un anno dopo vengono insigniti, insieme a Peres, del premio Nobel per la Pace.
L’effetto-Oslo, oltre alla fine dell’Intifada, produce il secondo accordo arabo-israeliano fra Stati dopo quello di Camp David del 1978 fra Israele ed Egitto. Nel 1994 anche la Giordania fa pace con Tel Aviv, dopo una storica stretta di mano fra re Hussein e Rabin alla Casa Bianca. Nascono l’Autorità nazionale palestinese e la sua polizia nei Territori. Israele lascia subito una parte di Gaza e si ritira dall’enclave di Gerico, anche se non allenta la morsa sui lavoratori palestinesi della West Bank e di Gaza, sigillate anche per chi va a lavorare nello Stato ebraico. La Lega Araba, dopo 46 anni, toglie l’embargo a Israele e ai Paesi che vi fanno affari. Sembra scoccata l’ora della pace. Ma è solo un’altra quiete prima dell’ennesima tempesta.
La prima puntata – l’Onu disse “due Stati” ma ne nacque uno solo
La seconda puntata – “Territori occupati”: ecco quando e perché
(3 – continua)