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“Stavamo lavorando in ospedale, quando abbiamo sentito una forte esplosione e il soffitto è crollato in sala operatoria”. Gaza è polvere. È più inferni, uno dentro l’altro, schiacciati in una Striscia di terra e di morte, da giorni rimasta al buio sotto una pioggia di fuoco israeliano, la rappresaglia per l’attacco sferrato da Hamas il 7 ottobre scorso. Per le vittime dell’ospedale Al-Ahil Arab, colpito due sere fa, “qualsiasi numero è provvisorio”. Morti e feriti non si calcolano più in cifre, ma con una parola, quella usata dal dottore Ghassan Abu Sittah, dell’equipe di Medici senza Frontiere lì presente: “È un massacro. Nessuno luogo è sicuro, a Gaza”.
Voci in arrivo dalla Striscia, spezzate, straziate, frammentate, come le macerie che hanno intorno: sono quelle dei Medici senza Frontiere, presente a Gaza e in tutta la Palestina da 20 anni, col suo esercito di camici bianchi (300 operatori, tra personale medico e non). “Le scorte di medicinali si stanno esaurendo, è molto pericoloso, non sappiamo che succederà domani, dove saremo”: lo testimonia il dottor Mohammed Abu Mughaisseb, vice coordinatore MSF a Gaza.
Sfrecciano le squadre MSF, tra nord e sud della Striscia, tra l’ospedale di Al-Awda, una clinica allestita al centro di Gaza city e gli altri due centri dove operano, il Nasser hospital e l’Indonesiano, ma è il conto alla rovescia di tutto: scorte d’acqua, cibo, antidolorifici, farmaci. Oltre al personale, MSF cerca di garantire forniture anche ad altre strutture cliniche: kit d’emergenza, defibrillatori, bende, soprattutto quelle per salvarti la vita da una politica che ti incenerisce. Un bambino di 13 anni – uno dei tanti, uno dei migliaia che sono già morti – è stato spogliato pure della sua pelle: lo ha bruciato una bomba caduta vicino casa. È rimasto impresso nelle pupille del dottore MSF Leo Cans, che testimonia: “In tre giorni abbiamo utilizzato le scorte di forniture mediche di tre settimane”. Molti altri ustionati e feriti sono impossibili da trasferire, “urlano dal dolore”, ma rimangono nelle loro pozze di sangue e disperazione. “Non c’è modo di trasportare i pazienti nelle strutture sanitarie”, ammette Darwin Diaz, coordinatore MSF. Pure le ambulanze sono target di attacchi aerei. È accaduto davanti all’ospedale Nasser: morta l’infermiera e morto l’autista.
Matthias Kennes, capomissione MSF a Gaza, raccoglie le parole al ritmo delle esplosioni (la sua testimonianza audio è sul fattoquotidiano.it e sui nostri social): “Il nostro team che sta lavorando all’ospedale di Al-Dawa ci ha riferito che ieri pomeriggio sono arrivati 50 pazienti, di cui cinque già morti all’arrivo. Gli altri sono stati stabilizzati e poi dimessi, nella speranza che trovino un luogo sicuro a nord della Striscia. Come potete sentire, gli attacchi sono ancora in corso mentre parliamo, gli attacchi continuano. Molti dei nostri colleghi hanno abbandonato le loro abitazioni, alcuni raccontano che i palazzi in cui abitavano sono stati completamente distrutti”. Gli attacchi aerei stanno demolendo intere strade, isolato per isolato. Non c’è tempo per nascondersi, né tempo per riposare. Gaza la trappola, cella collettiva per due milioni di persone, dove dal 7 ottobre scorso oltre 3 mila palestinesi sono morti, quasi 10 mila sono rimasti feriti, 18 strutture sanitarie sono state bombardate, e 12 operatori sanitari che hanno rifiutato di lasciare le loro postazioni hanno perso la vita secondo dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità.
“È un attacco contro l’umanità”: così ha definito l’inferno dei gazawi Meinie Nicolai, direttrice MSF, che ha chiesto la fine immediata dello spargimento di sangue. Dopo gli attacchi di Hamas “la risposta del governo israeliano non può essere quella di strangolare l’intera popolazione. E nulla giustifica un attacco su un ospedale, dove ci sono medici pazienti e persone in cerca di un luogo sicuro”. Ma nessun luogo è sicuro a Gaza. Anzi, presto Gaza potrebbe non essere nemmeno più un luogo. Solo un’enorme fossa comune, pugno di polvere nera, sangue e ossa.