L’invito fatto da Joe Biden a Benjamin Netanyahu durante il suo viaggio è certamente significativo. “La rabbia che prova Israele dopo l’attacco del 7 ottobre è la stessa che gli Stati Uniti hanno provato dopo l’11 settembre”, ha detto il presidente Usa che però ha ricordato che, a causa di quella rabbia, “gli Stati Uniti hanno commesso degli errori dopo l’11 settembre”. Israele non deve fare lo stesso errore, dice Biden, ignaro di quanto quell’appello sia applicabile agli stessi Stati Uniti. E del resto, le dimissioni ieri del funzionario del Dipartimento di Stato, Josh Paul, in polemica con l’invio di armi a Israele, sembra un monito inascoltato: “Stiamo ripetendo da decenni sempre gli stessi errori”, ha detto sconsolato.
Dopo l’attacco dell’11 settembre, infatti, si è dispiegata negli Usa la strategia dettata dagli allora “neoconservatori”, lo schema della “guerra infinita” e preventiva finalizzata a prevenire il terrore. Nel giro di due anni gli Stati Uniti hanno sostanzialmente occupato l’Afghanistan e poi l’Iraq con due guerre spaventose che complessivamente hanno provocato almeno 250 mila morti (ma le stime sono ovviamente controverse, ce ne sono di più tragiche). Hanno soprattutto assimilato la concezione dello “scontro di civiltà” che l’attacco alle Torri gemelle si portava dietro, dando un impulso sempre più forte alle spese militari, alla gestione, da protagonisti, delle istituzioni globali e di un potere economico schiacciante.
La fase neocon è stata relativizzata da Barack Obama che, nel discorso al Cairo del 2009, ha proposto “un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo”. Una parte di questo impegno ha prodotto risultati parziali ma importanti, come l’accordo sul nucleare con l’Iran. Più controversa la scelta di non impegnarsi nella guerra in Siria o di impegnarsi in modo selettivo e poi alternato.
Ma l’approccio globalista e “internazionalista” (caro ai neocon) non è scomparso dalla politica estera Usa. È stata certamente stemperata la diatriba culturale, ma il primo vero scossone, peraltro anch’esso parziale, arriva con il ripiegamento interno di Donald Trump. Neanche lui, però, intacca i fondamentali dell’approccio globale statunitense. Si pensi all’omicidio mirato, proposto dal Pentagono e avallato dalla Casa Bianca nel gennaio 2020, del generale iraniano Qassem Suleimani.
L’Ucraina, dove sono evidenti le responsabilità della Russia, ad esempio, ha platealmente messo in evidenza le conseguenze nefaste dell’incessante lavorìo di allargamento della Nato nell’Est europeo. Gli Stati Uniti restano la forza militare navale più forte nel mare più lontano da casa, quello Cinese, e la tensione rimane permanente attorno a Taiwan. Dopo il discorso di Obama del 2009 nascono le primavere arabe e gli Stati Uniti, guidati dai Democratici, si danno un bel da fare per provocare la guerra in Libia con risultati devastanti. In Siria, l’iniziale appoggio ai curdi in funzione anti-Isis, si è poi tradotto in un voltafaccia per compiacere la Turchia. Gli Usa hanno tenuto in piedi lo stesso assetto di “governo mondiale” di venti anni fa e il ruolo avuto dal G20 dopo la crisi economica del 2008 è rientrato rapidamente.
In Medio Oriente nessun passo è stato fatto per favorire un’intesa tra Israele e palestinesi, mentre il ruolo dell’Onu, negli ultimi venti anni, è stato ridotto fino a farne un organismo marginale. Non è solo colpa degli Usa, ma Washington non ha fatto nulla per impedire questa deriva. Israele farebbe bene a non ripetere gli errori americani del 2001, ma gli Usa quando impareranno dai propri?