Un film-documentario per raccontarsi e svelarsi. Si intitola semplicemente “Zucchero – Sugar Fornaciari”, ed è firmato da Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano. Cento minuti di grande musica, immagini prodigiose, successi e depressioni raccontati dal diretto interessato, come pure da alcuni dei suoi molti compagni di viaggio: Bono, Sting, Brian May, Paul Young, Andrea Bocelli, Salmo (l’unico che aggiunge poco e forse nulla), Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Roberto Baggio, Jack Savoretti, Don Was, Randy Jackson e Corrado Rustici. Un film imperdibile, presentato ieri alla Festa del Cinema a Roma e che sarà nelle sale cinematografiche domani, martedì e mercoledì. Sempre mercoledì – il 25 ottobre – Zucchero riceverà la Cittadinanza onoraria di Reggio Emilia. In occasione dell’uscita del film, Zucchero ha concesso una sola intervista one to one: questa. Un fiume in piena come sempre. Per dirla con chi lo recensì dopo una delle sue prime date con Eric Clapton alla Royal Albert Hall nel 1990: “Un cappellaio matto con la voce di cuoio”. Zucchero ha anche rivelato cose molto private e forti, che sinora aveva tenuto per sé. Eccole, divise per temi, sogni e ferite.
La Versilia e quel jukebox. “Ho vissuto i primi anni in un paese della bassa emiliana, Roncocesi: 700 persone. Ero protetto, imparavo dai vecchi, vivevo nel piccolo mondo di Guareschi. A 11 anni la mia famiglia si è trasferita. Mio padre “voltava” il formaggio: era un lavoro pericoloso e non guadagnava nulla. Mi ritrovai a Forte dei Marmi. Non c’entravo nulla e ne ho sofferto. Lì vivevano di apparenza e non di sostanza, io ero abituato al contrario. Alla Versilia devo più che altro una cosa: un jukebox. Era in un locale dove quelli più grandi giocavano a biliardo. Io me ne stavo davanti a quel jukebox. È grazie a lui che ho scoperto il rhythm and blues: Wilson Pickett, Marvin Gaye, Otis Redding, Aretha Franklin. Se fossi rimasto in Emilia, probabilmente sarei rimasto al cantautorato e al rock”.
Sradicamenti & bullismi. “Mi sentivo così fuori contesto che, a scuola, mi portavo un vasetto con dentro la terra di Roncocesi. Aprivo il vasetto e la annusavo. Un professore mi vide e mi sospese, perché diceva che non stavo attento alle lezioni. Non l’ho mai raccontato, ma sono stato vittima di bullismi. Avevo un accento molto emiliano, il viso effeminato e i capelli lunghi. Era il periodo dell’omicidio del povero Ermanno Lavorini (1969), un bimbo di 12 anni ammazzato da un’associazione eversiva di monarchici che – per depistare le indagini – ipotizzò una falsa pista di pedofilia. Alle festine mi mettevano a mettere i dischi e i coetanei limonavano, così finirono col credere che io fossi “il gay, l’effeminato”. Una volta mi legarono in un letto mani e piedi e qualcuno cercò – diciamo così – di “passare al peggio”. Ho urlato e si sono fermati. Sono scappato in bici. Non volevo dirlo ai miei, così mi inventai una lettera di mio padre. Imitai la sua firma e la mandai al capobranco, scrivendo – come fossi mio padre – che avevo saputo tutto e che, se lo avessero rifatto, lo avrei detto ai carabinieri. Così, per fortuna, smisero di rompermi i coglioni”.
Sarei una persona dolce. “Sarei una persona dolce, molto educata (grazie a genitori rigidi) e amante dell’armonia. La vita mi ha costretto a difendermi. Lo sradicamento, il bullismo, l’essere sempre messo all’ultimo banco: non è stato facile. Poi c’è stata la separazione dalla moglie e dalle figlie, e a quel punto un po’ mi sono indurito. Riconosco, a volte, di essere ‘duro’: è la mia maniera per non essere vulnerabile. Molti pensano che sia arrogante e maleducato, anche per certe parolacce che uso nelle canzoni, ma non è così”.
Gli inizi. “Per anni mi hanno fatto fare musica che non amavo. Sono stato a Castrocaro e quattro volte a Sanremo, e ogni volta andava male. Avevo bisogno di soldi, avevo già una figlia, coi weekend in balera al massimo mi restavano 150mila lire. Cercavo qualsiasi occasione. Dal lunedì al venerdì stavo a Milano a bussare alle case discografiche, sperando almeno di essere accettato come autore. Il primo a cantare un mio brano fu Fred Bongusto, con cui lavoravo insieme alla Bussola. Mi facevano suonare fino a quando almeno una coppia prendeva uno champagne. A quel punto, di solito alle 3 di notte, quella coppia diceva puntualmente: ‘Orchestra, ci faccia una samba!’. E noi partivamo con la samba. Per anni le case discografiche non credevano nella mia voce, ritenuta troppo roca, e nel genere ‘troppo americano’ che volevo fare. Per cantare dovevo ripulire la mia voce e suonare canzoni d’amore molto pop e lontanissime da me. Non ero io, non fino a Donne e più ancora Rispetto, ma non potevo fare altro”.
Quel nastrino. “Una volta, con mio padre, andai a vedere a Scandiano i Nomadi. Avevo dieci anni. Dopo il concerto chiesi a Beppe Carletti cosa dovevo fare per realizzare un disco: avevo già quel sogno lì. Fu gentilissimo e mi fece ricevere un mese dopo da un discografico Emi, che poi ho ritrovato alla Polygram. Mi presentai con un nastrino di 11 canzoni, solo voce e chitarra, che mi era costato tantissimo. Lui mi ricevette, ma neanche ascoltò il nastrino: non aveva tempo. Erano canzoni alla Guccini, a volte in dialetto. Chissà che fine ha fatto”.
Depressione. “Sono entrato in crisi nera dopo il successo enorme di Oro incenso e birra. Da una parte c’era una pressione enorme, dall’altra la mia storia personale che andava definitivamente a rotoli. Cinque anni di inferno. Me ne stavo in una casa piccola piccola a Marina di Pietrasanta, sul mare. Ero dilaniato tra il dover fare i concerti e il combattere giornalmente con delle situazioni veramente dure. In quelle condizioni scrissi Miserere. Rivedendo vecchi video in cui cantavo sul palco, piangevo e mi chiedevo dove mai avessi trovato tutte quelle forze. Ho dovuto per forza ricorrere agli psicofarmaci. Una volta andai da un noto psichiatra dell’Università di Pisa: non volevo più farela tournée di Miserere. La notte prima avevo sognato di cantare in uno stadio, e nelle curve il pubblico con la bocca larga e spalancata mi voleva mangiare. Ero terrorizzato. Avevo continui attacchi di panico e volevo abbandonare tutto. Il professore mi consigliò di ricoverarmi. Preparai la borsa, avvertii le bimbe. Sarei stato lì per tutta la durata del tour, anche per evitare le penali dei contratti già firmati. Poi, appena arrivato al reparto di Psichiatria a Pisa, vidi una vecchietta che gridava ‘cancheri’ a tutti e tirava la borsa contro le infermiere. Quella scena violenta mi terrorizzò e scappai. Per fortuna”.
La solitudine del terzo brano. “In quel tour di Miserere, quando arrivavo al terzo brano (era Il pelo nell’uovo), crollavo puntualmente. Mi appoggiavo al bassista o al chitarrista, perché non stavo in piedi. Ero proprio “nel tritello”. Una parte di me voleva scappare e l’altra mi diceva di resistere. Ogni volta. Alla fine restavo, arrivava l’adrenalina e mi salvavo. Mi è accaduto anche in qualche tournée successiva, sempre al terzo brano, ma molto meno”.
Dune mosse. “Il blues non è una cosa che si insegna e si impara: o ce l’hai dentro o non ce l’hai. Io attingo dal blues, ma non faccio blues vero e proprio. A me interessa attingere dal blues per poi contaminarlo – soprattutto nelle ballate – con la melodia mediterranea italiana. Credo di averlo fatto molto bene in Dune mosse, e fu questo aspetto a colpire Miles Davis”.
Bono, Sting e Il Toro della Barisella. “Bono, Sting e De Gregori hanno detto cose bellissime di me. Brian May è un fratello. Chi altri avrei voluto nel film? Peter Gabriel, con cui ho una sintonia particolare. Pavarotti e Mandela, che purtroppo non ci sono più. Lisa Hunt, la storica corista dei miei primi dischi. E soprattutto i miei tre amici d’infanzia, che hanno soprannomi assurdi (tipo il ‘Toro della Barisella’)”.
Una serie e un film. “Non mi hanno ancora chiesto, come accaduto a Vasco, di fare una serie intera su di me. Se accadesse, di sicuro avrei materiale per molte puntate. Tengo però di più a un film: ho scritto la sceneggiatura, è ispirata a un fatto che mi è accaduto. Ci lavoro da anni. Ma non potrei certo interpretarlo io. Devo trovare il regista e gli attori giusti. Prima o poi lo farò”.
Sempre in tour. “Tra novembre e dicembre farò 11 concerti con Bocelli negli Stati Uniti. A fine marzo ripartiremo dalla Royal Albert Hall di Londra con tre date, per poi fare la parte scandinava. Quindi i grandi festival europei e tre stadi italiani (Bologna, Messina e Milano). Ogni volta quasi tre ore di concerto. La voce non è mai stata un problema: mai fatti vocalizzi per schiarirla, tanto non si schiarirà mai. L’adrenalina fa tanto e alla fine mi salva sempre”.
Fino alla fine. “Voglio continuare a stare sul palco finché campo. Come ha fatto B.B. King e come fa Mick Jagger, anche se lui si allena molto di più: io sono più pigro. La penso come Keith Richards: ‘Come posso fermarmi quando sono partito?’. Non riesco ad avere emozioni così forti come sul palco: se mi fermo, dopo un po’ mi annoio.