Una tassa minima globale sui miliardari non è utopia: è il modo migliore per evitare che contribuiscano poco o nulla al finanziamento di welfare, infrastrutture e transizione ecologica. Insieme a una seria tassa minima sulle multinazionali, senza scappatoie ed esenzioni, permetterebbe di raccogliere almeno 500 miliardi di dollari all’anno. Il primo Rapporto sull’evasione fiscale globale dell’Eu Tax Observatory e guidato da Gabriel Zucman – che lo presenta oggi alla Paris School of Economics – non mette solo insieme dati basati sul lavoro di più di 100 ricercatori di tutto il mondo. Manda anche un messaggio “culturale”: la perdita di gettito a favore di grandi aziende e super ricchi è solo questione di volontà politica.
Volontà che finora è mancata su quasi tutti i fronti. Lo spostamento di profitti nei paradisi fiscali da parte delle multinazionali, esploso dopo la crisi del 2009, non dà segni di calo: nuove stime messe a punte da Zucman con Thomas Tørsløv e Ludvig Wier mostrano che staziona da anni intorno ai 1000 miliardi di dollari l’anno (il 35% dei profitti realizzati fuori dal Paese di origine) e continua a sottrarre agli Stati circa il 10% del gettito potenziale, quota che per l’Italia sale al 13%. Chi ne beneficia? Soprattutto Olanda e Irlanda, dove nel 2020 sono stati trasferiti rispettivamente 180 e oltre 140 miliardi di dollari di profitti contro i 60 approdati alle isole Vergini e i meno di 50 del Lussemburgo. I miliardari, complici società holding che fanno da tramite per l’incasso dei dividendi, pagano aliquote marginali effettive tra lo 0 e lo 0,5% della loro ricchezza e intorno al 25% del reddito (vedi grafico). I regimi fiscali preferenziali per piccole categorie di contribuenti fanno perdere ai Paesi europei 7,5 miliardi di introiti fiscali all’anno. E la tassa piatta di 100mila per i milionari voluta dal governo Renzi è il caso peggiore, insieme a quella greca, perché offre esenzioni imponenti a pochi individui estremamente facoltosi.
Intanto, tentativi di intervento che la politica ha presentato come rivoluzionari sono sfociati in misure deludenti. Vedi la tassa minima globale per le multinazionali che entrerà in vigore nell’Unione europea da gennaio 2024 ed è appena stata recepita dal governo Meloni. Nel 2021 gli Usa si erano espressi a favore di un’aliquota del 21%, il livello della corporate tax domestica dopo i tagli di Trump (Joe Biden punta ora ad aumentarla al 28%). Ma i negoziati in sede Ocse hanno partorito un compromesso al ribasso fissandola al 15%: molto meno del carico fiscale di un lavoratore dipendente. Poi sono arrivati l’esclusione dall’imponibile di una quota decrescente delle spese sostenute nel Paese a bassa fiscalità – ulteriore incentivo a spostare lì la produzione – e l’ok a non considerare i crediti fiscali come una riduzione di aliquota. Infine gli Usa non hanno ratificato l’accordo e fino al 2026 i gruppi basati in Stati con aliquote superiori al 20% non saranno tassabili. Il risultato, stando ai calcoli dell’osservatorio, è che il gettito complessivo si fermerà nel primo anno di applicazione a 136 miliardi contro 270 potenziali. L’Italia si aspetta prudenzialmente solo 400 milioni. Le scappatoie inserite in corsa e all’insaputa del grande pubblico rendono peraltro la tassa inefficace nel contrastare il dumping tra Paesi, gioco a somma negativa in cui gli unici vincitori sono gli azionisti delle multinazionali.
L’unica storia di parziale successo riguarda lo scambio automatico di informazioni ai fini fiscali applicato oggi da un centinaio di Paesi: grazie al Common Reporting Standard adottato nel 2017, sulla scia del Foreign Account Tax Compliance Act statunitense, nell’ultimo decennio l’evasione offshore da parte degli individui più facoltosi è diminuita di tre volte. Ora “solo” il 27% della ricchezza detenuta all’estero sfugge al fisco: prima del 2010 era il 90%. Morale: lo stop al segreto bancario ha portato frutti. Ma gli evasori hanno rapidamente trovato l’inganno e spostato parte dei patrimoni dagli asset finanziari al vecchio mattone, non coperto da quegli accordi: tra Londra, Parigi, Singapore, Dubai, Oslo e la Costa Azzura, gli investitori stranieri hanno ormai in mano immobili per un valore vicino ai 500 miliardi di dollari.
L’Osservatorio, co-finanziato dall’Unione europea, non si ferma alla fotografia della situazione. Il quinto capitolo del rapporto è tutto dedicato ai cambiamenti possibili. Una delle proposte chiave è l’introduzione di una nuova tassa minima globale del 2% sulle fortune dei miliardari, i principali vincitori della globalizzazione, la cui quota sul totale della ricchezza mondiale si è moltiplicata di tre volte negli ultimi 25 anni. L’imposta colpirebbe circa 2.500 individui nel mondo, di cui 835 in Nord America e 499 in Europa, titolari di una media di 4,7 miliardi l’uno. Oggi si stima che paghino in totale solo 44 miliardi di imposte, con la nuova minimum tax sarebbero chiamati a contribuire alle casse pubbliche con altri 214 miliardi.
“Può sembrare impossibile”, commenta nell’introduzione il premio Nobel Joseph Stiglitz, “ma solo pochi anni fa anche eliminare il segreto bancario e introdurre una tassa minima per le imprese lo sembravano”. In assenza di un consenso globale, in ogni caso, c’è anche l’opzione di tassare i super ricchi a livello nazionale: per evitare la fuga verso Stati più compiacenti basta prevedere che chi per lungo tempo è stato residente in un Paese e lì ha fatto fortuna continui per diversi anni a essere tassabile dalle sue autorità fiscali. La ratio della proposta è in linea con gli obiettivi dell’Iniziativa dei cittadini europei per un’imposta europea sui grandi patrimoni, sostenuta dalla raccolta firme La Grande Ricchezza promossa da Oxfam in partnership con Il Fatto. La misura sarebbe “una grande opportunità di riconciliare la globalizzazione con una maggiore giustizia fiscale”, commenta Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia fiscale di Oxfam Italia. Per l’Italia potrebbe produrre un gettito considerevole, “fino a 16 miliardi di euro se l’imposta si applicasse allo 0,1% dei contribuenti italiani più ricchi”.
Altre richieste puntano a riformare gli accordi sulla global minimum tax per le multinazionali eliminando le scappatoie e portando l’aliquota al 25%. In alternativa, singoli Paesi potrebbero procedere da soli su quella strada tassando la differenza tra l’esborso che un gruppo dovrebbe sostenere se in tutto il mondo vigesse quell’aliquota e il suo effettivo carico fiscale. L’appello finale riguarda la trasparenza delle informazioni sulla proprietà degli asset: un registro globale che metta in rete i dati a disposizione di banche, società private, autorità finanziarie e depositi titoli consentirebbe di conoscere gli effettivi titolari di trust, attività finanziarie e immobili con enormi vantaggi per il contrasto all’evasione, al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. E potrebbe diventare l’architrave per tradurre in pratica la tassa minima sui miliardari.
Il rapporto verrà presentato in Italia il 13 novembre, durante il workshop “Evasione fiscale: dimensione del fenomeno e misure di contrasto”, organizzato a Roma all’Auditorium Loyola da Oxfam Italia e dal dipartimento di Economia dell’Università di Milano-Bicocca.