Si può aiutare Israele a sfuggire al vicolo cieco in cui sta cacciandosi, nell’illusione di poter sopravvivere solo grazie alla sua forza militare? Oggi la società israeliana è angosciata dalla sensazione che il mondo non comprenda il trauma vissuto a partire dal 7 ottobre. E questa incomprensione rischia di produrre conseguenze catastrofiche.
Serpeggia un dubbio, che ormai Israele venga considerato un ingombro, un’anomalia difficile da sopportare, anche da parte delle nazioni che finora ne hanno difeso il diritto all’esistenza. Lo conferma com’è caduta nel vuoto l’irricevibile richiesta di dimissioni del segretario generale dell’Onu. Seguita dalla scelta di campo della Turchia, Paese Nato, il cui presidente chiama “liberatori, non terroristi”, i fanatici miliziani di Hamas. Mentre assume sempre più un ruolo-chiave il Qatar, protettore di Hamas, monarchia wahabita di cui siamo peraltro fornitori di armi.
Leggo l’ “appello contro l’indifferenza morale” sottoscritto da decine di intellettuali pacifisti israeliani, primi firmatari David Grossman, Eva Illouz e Aviad Kleinberg: “Con nostro sgomento, alcuni esponenti della sinistra globale, individui che fino ad ora erano nostri partner politici, hanno reagito con indifferenza a questi eventi orribili e talvolta hanno perfino giustificato le azioni di Hamas”. E ciò proprio quando “abbiamo bisogno del sostegno e della solidarietà della sinistra globale, sotto forma di un appello inequivocabile contro la violenza indiscriminata contro i civili di entrambe le parti”. Con ciò vengono accusati di tradimento in patria, e al tempo stesso di fiancheggiare Netanyahu all’estero. Mentre cercano solo di farci capire che il massacro di innocenti perpetrato da Hamas in territorio israeliano non può essere banalizzato come episodio fra i tanti di un secolo di guerre. Sia detto per inciso, se proprio si vuole insistere a far valere la contabilità dei morti: in cento anni di guerre arabo-israeliane ha perso la vita neanche un decimo degli ebrei che i nazisti sterminarono in soli due mesi del 1941 quando invasero l’Unione Sovietica. I morti sono sempre troppi, certo, ma questa sproporzione pesa ancora enormemente nella psicologia dell’israeliano medio.
L’avvertimento ci giunge da uomini e donne che perseguono da sempre il dialogo e la convivenza con i palestinesi. E per questo sono angosciati dallo stato d’animo radicato nei loro concittadini sospinti a dirsi: “Non dobbiamo fidarci più di nessuno. Contiamo solo sulla nostra forza. Venderemo cara la pelle. Fino all’arma proibita, se necessario”.
Oggi sembra impossibile disinnescare quest’ira funesta. Alla quale sembra sommarsi la disperazione, il senso d’impotenza delle minoranze lungimiranti di ambo le parti. Vorrei che tutti apprezzassimo lo sforzo che vibra nel drammatico, bellissimo “Diario da Tel Aviv” che ci invia ogni giorno Manuela Dviri: una donna che ha perso in guerra il figlio Yoni, si è messa alla testa del movimento pacifista e ha organizzato la cura dei bambini palestinesi affetti da patologie gravi negli ospedali israeliani. Proprio come faceva Yocheved Lifshitz, la donna presa in ostaggio da Hamas che ha salutato i suoi carcerieri invocando “pace” in arabo e in ebraico. Dietro alla sindrome da abbandono che genera la pulsione alla sfida mortale, si cela la visione erronea ma diffusa di Israele come “Stato coloniale”. Avvalorata, ma non per questo giustificata, dall’occupazione dei Territori palestinesi che si protrae da oltre mezzo secolo. Questa visione di Israele corpo estraneo, entità provvisoria da estirpare nelle terre dell’Islam, ha origini lontane. Attinge da un’interpretazione della storia delle Crociate in cui si rimarca che il Regno latino di Gerusalemme durò solo 88 anni prima di essere rovesciato; sorte a cui, dando tempo al tempo, anche Israele sarebbe quindi predestinato. Ma è insostenibile il paragone fra le sparute legioni di cavalieri e i milioni di ebrei che vi emigrarono e vi si radicarono nel corso di decenni. Né si può dimenticare che essi provenivano in larga maggioranza dall’Europa orientale e dai Paesi arabi. Non possono essere liquidati come avamposto dell’Occidente.
Il destino di Israele dipenderà anche dalla nostra comprensione delle vicissitudini che l’hanno portato a dare risposte sbagliate al senso di accerchiamento vissuto. Il che non comporta adesione acritica, semmai il contrario. Aiuta Israele chi rifugge la logica della rappresaglia e lo sospinge a riconoscere l’improrogabile necessità che il popolo palestinese pervenga all’autodeterminazione. Ma abbandonare Israele al proprio destino sarebbe irresponsabile, oltre che immorale.
P.s. In una settimana la nostra sottoscrizione per la sede di Gaza di Msf ha raggiunto 150 mila euro. Ecco un modo giusto di far sentire la nostra voce.