Beata sincerità involontaria. Dopo un anno di indizi disseminati in ogni decisione e provvedimento, finalmente il malcapitato Giorgetti l’ha detto: il governo ha lavorato così bene che sarebbe un peccato presentare emendamenti alla legge finanziaria. Siamo a un passo da “Aboliamo il Parlamento”, ed è già buono che non sia venuta in mente come misura di spending review: d’altronde, se voucher e contratti a tempo sono uno stimolo per il lavoro e la natalità, l’eliminazione delle lungaggini della dialettica democratica non può per loro che essere prova di pragmatismo.
E dire che la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, proprio grazie alle prerogative dell’opposizione ha costruito la propria forza elettorale e politica; e che il normalmente silenzioso Giorgetti tanto aveva insistito sulla necessità di una politica industriale finalmente strategica. Nella disgraziata legge di Bilancio che il governo vuole somministrarci, il pensiero strategico si è infine concretizzato nell’eterno ritorno della panacea di tutti i mali: le privatizzazioni, sacro Graal di ispirazione neoliberale che a partire dagli anni 90 ha prodotto impoverimento per la collettività e ricchezza sconsiderata per alcuni. E che adesso, con gli effetti di quelle scelte scellerate pienamente dispiegate (vedi ex Ilva, o ex Alitalia), dovrebbe garantire 20 miliardi di entrate a un esecutivo in panne che ripiega sulle dismissioni creative, dopo aver sbandierato per mesi inesistenti risultati migliori d’Europa. La realtà che emerge dalla cortina fumogena della propaganda è invece il vuoto totale di visione, sublimato nel cosiddetto “orizzonte lungo della legislatura”, all’oggi declinata unicamente nel corporativismo e nell’ostinato rifiuto di ascolto delle istanze scandite, il 7 ottobre, dalla piazza del sindacato e dall’associazionismo. Non una parola è arrivata su quell’adunata poderosa di persone che “si rimboccano le maniche”, come ama dire la premier parlando di se stessa, non un segno di comprensione, non un invito alla discussione. E non è un caso. Non solo infatti quell’enorme serbatoio di risorse rende manifesta, per contrasto, l’idea dell’autosufficienza sovrana dell’esecutivo, che si rintana in un’Italia confortevolmente immobile, sorda, se non sprezzante, al diffuso ribollire sociale e all’evidenza del cambiamento necessario. L’ostentato silenzio nasconde anche la consapevolezza della forza potenziale dell’insieme delle coalizioni sociali che animano la vita prepolitica del Paese, il loro potere travolgente: ed è forse per questo che il governo ha finora sistematicamente ridicolizzato, ostacolato e anestetizzato ogni espressione sgradita di civismo, si tratti di accoglienza o di ecologia, di lotta per l’abitare o del diritto alle cure, di attivismo Lgbtq+ o di istruzione.
In assenza di partiti in grado di recuperare la loro missione originaria di rappresentanza, e di opposizione, è a queste reti sociali che dobbiamo guardare per la difesa di diritti acquisiti e per i nuovi da creare; solo la convergenza di queste organizzazioni operose può portare avanti un’altra idea di Italia, convogliando la trasformazione. Significa, in concreto, unire reti, contaminare le battaglie, costruire un metodo condiviso, di lotta e di esercizio del potere. Creare e mobilitare un’alternativa possibile, per proteggere la scuola, la sanità, il lavoro, la diversità, la Costituzione stessa. Nella speranza, sbiadita ma irrinunciabile, che una stagione straordinariamente escludente susciti nei partiti un moto ugualmente straordinario di ripensamento organizzativo e ideologico, serve ripetere che l’unione fa la forza. E ne servirà parecchia per trascinare il Paese fuori dalle secche di quest’impoverimento economico, umano e intellettuale.
Per il Forum Diseguaglianze e Diversità