Vittorio Sgarbi, sulla graticola da una settimana per le conferenze a pagamento che svolge pur essendo sottosegretario, contrattacca accusando l’autore dell’inchiesta che lo riguarda di aver ordito ai suoi danni una “campagna di delegittimazione” condotta perfino con minacce ai suoi collaboratori. “Non è giornalismo, è una campagna con altri fini. Minacce e tentativo di estorsione a mio ex collaboratore: ‘Se non vuole parlare con me io dovrò presto parlare di lei per quello che so’”. Boom.
A rilanciare è il suo ufficio stampa Nino Ippolito, che dal ministero fissa i suoi cachet e fattura con apposita società nonostante sia pagato 136 mila euro lordi l’anno per fare il capo segreteria e abbia dichiarato all’atto dell’assunzione dell’incarico di non avere conflitti di interessi. In onore agli importanti incarichi ricoperti, hanno pensato bene di usare il loro tempo prezioso (pagato dai contribuenti) per attaccare il giornalista autore dell’inchiesta, lamentando metodi minacciosi ed estorsivi. Tirano fuori due prove inconfutabili che sì, quel cronista è un brutto ceffo da cui guardarsi. Il primo è un sms a un ex collaboratore: “Se non vuole parlare con me io dovrò presto parlare di lei per quello che so. Per questo la invito a parlarmi… Spero di essere stato altrettanto chiaro… Io uscirò lunedì con la mia storia che la riguarda”. Ma nella marea di puntini affoga la verità fattuale ed emerge la disperazione.
I messaggi infatti sono più d’uno e di tutt’altro tenore, se letti tutti e integralmente: “Se non vorrà parlarmi non potrà lamentarsi ‘dopo’ che le cose scritte non siano veritiere o precise, perché la prova di aver svolto con diligenza il mio lavoro invitandola a farlo è in questi messaggi. Io le auguro il meglio, per lei la sua famiglia. E pure per Vittorio”. Seguito da questo: “Come detto io uscirò lunedì con la mia storia che ti riguarda in parte per la storia delle multe e del reddito di cittadinanza. Spero tu voglia spiegarmi, prima di andare in stampa, anche perché non ho alcun motivo di arrecarti un danno o metterti in cattiva luce. Ho una deadline a mezzogiorno di domani, dopo di che scriverò di averti contattato per chiarire, ma la risposta è stata un no comment”. Poi l’ultimo: “Buongiorno, io assumo sempre le mie responsabilità. Le ho solo offerto per l’ennesima volta l’opportunità di confermare o smentire alcune notizie e dare la sua versione. Non confonda la minaccia con il preciso dovere deontologico del giornalista di informare accertando i fatti e raccogliere le versioni dei protagonisti, anche qualora divergessero da come sono conosciute e prospettate. Anzi soprattutto, direi io. Cordialità”.
Ma non basta. Sgarbi&C decidono di rilanciare una “non-notizia” ovvero una lite giudiziaria tra l’autore e un suo ex editore di molti anni fa. Il giornalista sul Fatto aveva dato pubblicità alle tante provvidenze all’editoria percepite da quello (40 milioni di euro) che, risentito, avrebbe pensato bene di denunciarlo per “estorsione” perché la sua fonte era un ex collaboratore insoddisfatto. Ma è FALSO. Thomas Mackinson non risulta essere mai stato querelato, né iscritto nel registro degli indagati per un tentativo di estorsione, ai danni di Massimo Massano. Massano, in realtà, il 30 dicembre 2022 ha sporto querela nei confronti del cronista solo per il reato di diffamazione per un articolo (“Contributi all’editoria: in 20 anni 46 milioni all’ex missino Massano, editore amico di La Russa“). Per questo chi scrive – che mai ha subito una condanna in vita sua, neppure per il reato tipico di diffamazione per chi fa questo mestiere – ha provveduto a tutelare la propria reputazione, sporgendo querela per diffamazione contro Massano.
Se l’intento di Sgarbi&C è intimorire il giornalista che fa un’inchiesta su di lui forse dovrebbe interessare l’ordine dei Giornalisti al quale è iscritto (!) e al quale s’appella. Perché quello che lo accusa in 30 anni di “mestiere” non ha mai subito una condanna in sede civile o penale, neppure per il reato tipico della professione ovvero la diffamazione (figurarsi gli altri). Né un richiamo. Sgarbi invece vanta 670 querele, tanto se condannato non risarcisce le sue vittime in quanto “sottosegretario nullatenente” (a 8.700 euro al mese). A maggio è finito ancora a processo per aver paragonato la Raggi a Ciancimino.
Per un mero errore abbiamo indicato che Sgarbi avrebbe patteggiato con la Cucchi una causa per diffamazione. Ci scusiamo con i lettori e gli interessati
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