Serpenti, rane e tartarughe chiusi in delle reti, anatre e polli ammassati e cani e gatti schiacciati nelle gabbie. Tutti in attesa di essere macellati. Sono tornata a Nanning, capitale del Guangxi, nel sud della Cina, per documentare per Report come a quasi quattro anni dallo scoppio del Covid molto poco sia cambiato. Nonostante il principale indiziato per la pandemia sia il mercato umido di Wuhan, oggi chiuso e circondato dal filo spinato, gli animali vivi e macellati sul posto continuano a essere venduti nei mercati in giro per la Cina. Il governo cinese ha soltanto vietato il commercio delle specie selvatiche, ma non è riuscito a fermare i wet market, pericolosi per eventuali salti di specie, il famoso spillover, per la promiscuità di animali che in natura non entrerebbero mai in contatto fra loro e per le condizioni igieniche molto precarie. Da una tradizione dura a morire a un futuro distopico diventato realtà proprio in risposta ai virus.
A soli 90 chilometri da Wuhan visitiamo l’allevamento di maiali più alto al mondo: due palazzi di 26 piani, per una produzione che a pieno regime sarà di 1,2 milioni di suini l’anno. Possiamo vedere i maiali soltanto attraverso lo schermo. Solo i lavoratori, infatti, possono entrare in allevamento, e prima di accedere devono fare tre docce, un test e un giorno di quarantena. La Cina è ancora sotto choc per la peste suina africana, che nel 2018 ha sterminato 200 milioni di maiali, il 30% del totale. Così il governo ha dato il via libera a queste strutture, che si stanno diffondendo sempre di più nel Paese.
E ora è l’Italia a vivere l’incubo della peste suina. Il primo allevamento dove è stato trovato il virus risale ad agosto. Da allora sono stati abbattuti più di 40.000 maiali provenienti da una decina di allevamenti, quasi tutti concentrati nella provincia di Pavia. Ma forse il virus non si sarebbe diffuso così velocemente se uno dei primissimi allevatori colpiti avesse denunciato tempestivamente la moria di 400 maiali nel suo allevamento, anziché mandarli di corsa al macello per trarne un po’ di profitto. Diversi Paesi, come Giappone e Corea, hanno vietato l’importazione di carne di maiale dall’Italia. Ed è il professore di Microbiologia dell’Università di Milano, Claudio Bandi, a spiegarci che “l’aspetto straordinario di questo virus, è la sua sopravvivenza, la sua resistenza all’interno delle carcasse, all’interno delle carni. Si stima che nelle carni preparate, come può essere un prosciutto crudo o un salame, potrebbe resistere per mesi”. È un virus, quello della peste suina, che non contagia l’uomo, ma è sufficiente che in un allevamento un solo animale si infetti che, per precauzione, vengono abbattuti tutti, perché contro il virus non esistono né cure né vaccini, e tutti gli sforzi sono indirizzati a evitare la diffusione ad altre strutture.
Non sappiamo nulla sul paziente zero, e di come il virus sia entrato per la prima volta negli allevamenti italiani. Il sospetto cade sui cinghiali. Il primo cinghiale infetto era stato trovato un anno prima, in Piemonte. Il gruppo degli esperti di peste suina, che affianca il governo italiano nella lotta al virus, suggerì di circoscrivere i cinghiali potenzialmente infetti con delle recinzioni, sulla scorta di esperienze di successo come quelle del Belgio e della Croazia, dove il virus è stato debellato. L’intervento si sarebbe dovuto completare a luglio: Francesco Feliziani, responsabile del Laboratorio nazionale per le pesti suine, alle telecamere di Report dice che però a luglio, anziché finire i lavori, hanno cominciato a mettere le reti. Per pressioni delle attività ricettive e venatorie. Ma mettere le recinzioni ora è un intervento inutile, spiega sempre Feliziani, considerato che l’area di diffusione nel frattempo si è allargata a macchia d’olio, coprendo praticamente tutto il Nord Ovest. Abbiamo così cercato di intervistare il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida: sul made in Italy e il cibo italiano questo governo si è giocato molto. “Non risultano ritardi, le recinzioni le abbiamo fatte, e poi noi governiamo da un anno – risponde – siete male informati”. Ma quando gli chiediamo se l’implementazione della caccia ai cinghiali, promossa dal ministro come misura per debellare la peste suina, potrebbe portare a una dispersione ulteriore del virus, a causa della movimentazione di popolazioni di animali potenzialmente infetti, la risposta è che la nostra ricerca “è orientata”. Peccato, però, che sia orientata proprio dalle preoccupazioni messe nero su bianco dal gruppo degli esperti di peste suina, di cui fa parte anche Feliziani, in una circolare pubblicata sul sito del ministero della Salute dello stesso governo in cui siede Lollobrigida, a luglio scorso.
A essere invece consapevole dei rischi che corrono gli allevamenti in termini di biosicurezza è la Regione Lombardia, che ha istituito un fondo da 2,2 milioni di euro destinato agli allevatori per costruire le recinzioni per evitare che i cinghiali entrino in contatto con i suini. Peccato, però, che queste recinzioni per decreto andavano fatte entro luglio 2023, mentre il bando della Regione Lombardia aveva come scadenza il 18 settembre, quindi di fatto premiando i ritardatari che avrebbero dovuto fare quelle recinzioni di tasca loro. L’assessore all’agricoltura della Regione Lombardia Beduschi si giustifica dicendo che la priorità è proteggere l’industria suinicola. “C’è un’emergenza e noi dobbiamo proteggere un tesoro che è quello produttivo”. Ma intanto risorse pubbliche sono state spese anche per abbattere i suini. Centomila euro al giorno per un totale di 1 milione e 600 mila euro è quanto avrebbe incassato la ditta olandese, la TCC, specializzata in abbattimenti di emergenza. Un’emergenza pagata con i soldi di noi contribuenti.