Manuale per piccoli diffamatori. Un giorno un tale Francesco insulta una donna su X (Twitter). La chiama “tr**a” e le augura la morte tra atroci sofferenze. Il tutto potrebbe essere ignorato tra i migliaia di post quotidiani. Ma se Francesco viene denunciato le cose potrebbero mettersi male. O anche no. Perché basta cancellare il proprio account e grazie a una sorta di “scudo social” non essere indagato o al massimo archiviato. Twitter può non fornire ai magistrati l’identità di chi si nasconde dietro i nickname e tanto basta per chiudere il caso.
È successo a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il giovane pestato da due carabinieri e deceduto una settimana dopo l’arresto all’ospedale Pertini di Roma. Nei confronti di un uomo che l’ha definita “tr**a” sui social, la Procura di Roma ha chiesto per due volte l’archiviazione. Non sono bastate le indagini difensive di Fabio Anselmo, l’avvocato di Cucchi, che ha presentato pure il certificato di residenza di colui che ritiene aver scritto l’insulto. Poteva essere sequestrato il cellulare dell’indagato come peraltro la stessa Procura ha fatto quando l’odio social aveva altri destinatari. Come nel caso del ministro Giancarlo Giorgetti contro il quale un uomo su Twitter ha scritto: “Mi sa che #Giorgetti ci penserà 2 volte prima di uscire di casa…”: in questo caso alla denuncia è seguita una perquisizione, con il sequestro del telefonino e ora un’accusa di minaccia grave.
Il post contro Cucchi invece risale al 19 ottobre 2018. Su Twitter un uomo scrive: “#StefanoCucchi vorrei far patire alla sorella, di cui me ne frega un c***o che nome abbia, far patire DUE volte quello che hanno fatto al fratello. Le auguro di morire patendo ogni dolore sia fisico che mentale. Tr**a!”. Cucchi (ora senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra) denuncia, e le esprime solidarietà anche Selvaggia Lucarelli che in un post, dopo aver fatto alcune ricerche, identifica l’uomo spiegando che si tratta di un imprenditore che vive in provincia di Como. Si chiama Pietro.
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A dicembre 2019 però il pm deposita una prima richiesta di archiviazione. Cucchi presenta opposizione. In questo atto il suo legale scrive che il magistrato voleva archiviare perché “non sono emersi elementi che consentano di identificare i responsabili e non sono stati indicati altri elementi di sufficiente spunto investigativo”. Insomma per il magistrato – riportano gli atti redatti da Anselmo – “risulta allo stato impossibile qualsiasi attività in assenza delle evidenze telematiche. Per cui (…) deve essere avanzata richiesta di archiviazione perché è rimasto ignoto l’autore del reato”. Infatti dopo il clamore mediatico di quel post l’account viene cancellato, Twitter non fornisce l’identità e per il pm il caso può chiudersi così. L’avvocato Anselmo però non ci sta: l’archiviazione è stata chiesta “senza compiere alcun atto di indagine”, scrive nella sua opposizione di novembre 2020: “L’unico atto di indagine compiuto, su delega del pm, dalla Polizia postale è stato un banale accertamento online, a seguito del quale è emerso che il profilo Twitter (…) era stato rimosso” e il pm non ha “tenuto in considerazione” quanto riportato nella querela, dove era indicata anche la residenza di colui che per il legale è l’autore del post. L’avvocato mette in fila i risultati delle indagini difensive e deposita anche le testimonianze di due giornaliste. Una è una cronista de La Provincia di Como che ha raccontato di aver trovato l’uomo e di essere andata anche a casa sua: “Senza negare di esser stato lui a scrivere il tweet (…) iniziava a insultarmi e a minacciare che se fosse sceso dall’abitazione mi avrebbe denunciato”. Sentita in indagini difensive anche Selvaggia Lucarelli la quale racconta pure di esser stata contattata da una ragazza che ha detto di essere la figlia di Pietro e che voleva prendere le distanze dal padre.
Si arriva così all’udienza del 23 marzo 2021: il giudice rigetta la richiesta di archiviazione. Nella sua ordinanza spiega che Cucchi ha fornito “in termini di certezza le generalità dell’autore del reato”, mentre non condivide le considerazioni del pm sull’impossibilità di svolgere attività “in assenza delle evidenze telematiche”, ossia la conferma da parte di Twitter. “Dall’informativa della Polizia Postale – continua il giudice – risultano esser stati esperiti soltanto accertamenti presso il generico motore di ricerca (accessibile da tutti gli utenti) (…), senza tener conto (…) degli accurati elementi forniti nell’atto di querela”. Per questo il gip chiede di indagare l’imprenditore per diffamazione. Passa ancora un anno e dopo l’iscrizione nel registro degli indagati a giugno 2022 viene depositata una seconda richiesta di archiviazione: “Dall’esame degli atti e dalle risultanze investigative – scrive il pm – non sono emersi elementi che permettano di configurare l’ipotesi di reato ascritta nè sono state evidenziate altre circostanze idonee a suffragare un ulteriore approfondimento investigativo”. I legali di Cucchi si oppongono di nuovo. L’udienza è fissata per il 14 dicembre: vedremo se dopo oltre cinque anni da quel post si riuscirà a capire chi è il reale autore o se dire “tr**a” alla fine non è neanche diffamazione. Gli hater vadano a prendere appunti.