La madre di tutte le riforme, dicono gongolando i nipoti di quelli che una volta erano fuori dall’arco costituzionale per manifesta eversività e che oggi si trovano a riscriverla, la Costituzione. Senza togliere loro i meriti di una proposta oscena e irricevibile sul premierato, tocca smentirli e fare chiarezza: più che essere madre, questa proposta è figlia di tutte le riforme. È, cioè, l’ultimo ed estremo passaggio di un processo di devastazione dello Stato, delle sue istituzioni e del suo ordinamento che si è consumato nell’arco di un trentennio, sotto praticamente ogni governo, in un’erosione costante della democrazia e della dialettica che la deve tenere in piedi, delle sue articolazioni territoriali, delle regole della rappresentatività.
Se Giorgia Meloni può oggi pensare di proporre con nonchalance l’autoritarismo come forma di governo – meglio detto: di comando – è grazie a quello che abbiamo trangugiato sull’altare dello spirito del tempo, in un crescendo di distorsioni che non si possono considerare l’una slegata dall’altra. A partire dall’abolizione del sistema elettorale proporzionale in favore del maggioritario, in nome del bipolarismo e dei nuovi valori assoluti incarnati nella governabilità e nella stabilità. È lecito chiedersi cosa significhino veramente, se decenni dopo siamo ancora a discuterne, con proposte sempre più intollerabili e una democrazia sempre più “decidente”, per non dire escludente, mentre il principio della rappresentatività su cui si basa formalmente la Repubblica è stato spazzato via nella pratica materiale. Parlino per tutti i listini bloccati, cioè l’eliminazione del diritto dei cittadini di scegliere chi eleggere, esempio fulgido di come risolvere un problema reale – il voto di scambio – si sia deciso senza indugi di limare le previsioni costituzionali.
Con sgomento, abbiamo assistito al varo di leggi elettorali sempre più distorsive dell’equilibrio del potere – un’alterazione che oggi il governo vorrebbe cristallizzare proprio in Costituzione – leggi di cui gli stessi proponenti hanno talvolta sentito la sfrontatezza (il “Porcellum” di Calderoli), senza che questo li trattenesse dall’apporvi la firma. D’altronde, la stessa funzione del Parlamento, prima di essere ridotto a “votificio” come ormai universalmente riconosciuto, era stata minata proprio dalla riforma dei regolamenti delle Camere e dello statuto dell’opposizione promossi dall’allora presidente Violante: se l’intenzione dichiarata era riordinare un quadro reso complesso da nuove fonti di diritto e da nuovi strumenti legislativi, l’effetto è stato rendere l’Aula qualcosa di simile a un vigile urbano che dirige mestamente il traffico, mentre l’opposizione è ingabbiata in formule e modalità di alcuna efficacia. Si potrebbe continuare nell’excursus, con scelte imposte dall’alto ed errori a ogni tornante, dall’abolizione delle circoscrizioni di media entità (a proposito del legame tra rappresentanti e rappresentati) a quella delle province, fino ad arrivare a tempi recenti, con il mostro dell’autonomia differenziata, sigillo definitivo della disarticolazione dello Stato e dello smantellamento dei principi di uguaglianza sanciti dalla Costituzione.
C’è poco da sorprendersi, allora, se oggi Giorgia Meloni e i suoi possono reclamare un plebiscitarismo antiparlamentare vendendolo come rafforzamento della volontà dei cittadini, nell’ultimo (per ora) passaggio della de-democratizzazione del Paese: il percorso è stato lungo e accuratamente preparato. Toccherà mobilitarsi ancora una volta, prima che la devastazione sia irreversibile, impedendo questa “figlia di tutte le riforme”. Tenendo però a mente che serve ragionare anche sulle madri, per evitare davvero il precipizio.
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