Non ho firmato l’appello che chiede all’accademia italiana di rompere le relazioni con le università israeliane: lo considero sbagliato, e pericoloso.
Nel dopoguerra si pensò di introdurre per i professori universitari un giuramento di fedeltà costituzionale: ma, memori di quello imposto dal fascismo nel 1931, si scelse poi di evitare perfino l’obbligo morale di aderire alla Costituzione. L’università doveva essere sciolta da ogni ortodossia: quasi l’avamposto di una comunità semplicemente umana. Non è un obiettivo facile, e in tutto il mondo le università sono costrette a negoziare e a difendere ogni giorno la propria libertà: rispetto ai governi, o al mercato. Il discrimine è la possibilità di dissentire rispetto a chi esercita il potere: come ha detto Martin Luther King, “la libertà accademica è una realtà oggi perché Socrate praticava la disobbedienza civile”.
Nel codice etico del mio ateneo è scritto che “tutte le componenti dell’Università… sono tenute a salvaguardare l’indipendenza e l’autonomia della comunità accademica dal potere politico e da quello giudiziario, da quello religioso e da quello militare, dagli enti locali, dagli interessi economici, dai governi e dai corpi diplomatici stranieri”. Certo, se un marziano visitasse oggi le università italiane potrebbe apprezzare in modo molto discontinuo – usiamo un eufemismo – la loro reale indipendenza. Eppure, in ogni dipartimento troverebbe almeno qualche docente che la pratica fino in fondo: formando persone libere, malgrado il sistema.
È vero nella nostra (corrotta e periclitante) democrazia, lo è anche in Turchia, Cina, Arabia Saudita, Egitto e in tanti altri Paesi in cui minoranze e dissidenti sono perseguitati e uccisi, e in cui le università sono, in misura variabile, controllate dai governi o addirittura attive nell’attuarne le peggiori politiche: eppure nessuno, per fortuna, propone di boicottarle. Proprio in quelle comunità accademiche, infatti, resiste un residuo dissenso: connaturato all’insubordinazione intellettuale che spinge alla ricerca, cioè alla revisione della verità stabilita.
È una contraddizione ben nota: oggi sono le università dell’Iran a guidare la ribellione al regime, e sappiamo (dalla parte opposta) come le opulente università degli Stati Uniti possano al contempo nutrire la più servile fedeltà all’apparato militare e industriale, ma anche alimentare la più feroce critica al loro Paese.
Penso dunque sia un grave errore boicottare le università di Israele: come lo è stato interrompere le relazioni con quelle russe, o con quelle palestinesi. Le università israeliane sostengono l’invasione criminale di Gaza, e contribuiscono a tenere in piedi un sistema che Amnesty definisce, con solide ragioni, di apartheid? Quelle russe hanno espresso nei loro vertici pieno sostegno alla guerra di Putin? Quelle palestinesi hanno sostenuto la linea di Hamas? Sì, è accaduto anche tutto questo. Ma queste stesse università sono comunità plurali, la cui parte migliore lotta costantemente per affrancarsi dai rispettivi governi, rivendicando libertà per il pensiero critico.
Il 17 ottobre scorso, i rettori di nove università israeliane si sono rifiutati di sottostare a una direttiva del Consiglio Superiore per l’Educazione che chiedeva di denunciare ogni complicità intellettuale con Hamas: “Non intendiamo rispettare direttive che possono creare un’atmosfera di maccartismo e di denuncia reciproca nei campus”. Lo hanno scritto mentre piangevano, tra i loro stessi studenti, vittime del pogrom di Hamas.
Va tutto bene, dunque, nelle università di Israele? Naturalmente no, ed è vitale protestare con vigore contro ogni processo alle opinioni: lo ha fatto, per esempio, Judith Butler, con una splendida lettera in difesa della collega Nadera Shalhoub-Kevorkian, che per aver chiesto il cessate il fuoco a Gaza e aver parlato di genocidio è stata minacciata di licenziamento dalla Hebrew University of Jerusalem. Così, mentre decideva di non troncare le relazioni con gli atenei russi, il mio ateneo diffuse una nota durissima contro i rettori russi schierati con Putin.
Essere in relazione non vuol dire tacere: anzi. I ricercatori hanno il diritto (anzi il dovere) di criticare le ricerche e i corsi tesi a legittimare collateralismi al potere, ben documentati nelle università israeliane: come l’archeologia coloniale anti-palestinese, o l’uso della filosofia del male minore per giustificare l’uccisione dei civili. Ma le università non si possono ridurre né ai governi dei loro Paesi, né ai loro stessi governi accademici. Sono comunità plurali, per definizione aperte e perfino ribelli, se fedeli alla loro missione: rompere le relazioni tra comunità di ricercatori e studenti di Paesi diversi significherebbe uccidere proprio l’ultima speranza di costruire argomenti comuni per ribellarci alla follia omicida di governi che conducono il mondo al disastro.