Il direttore creativo della Maison: “Al primo stage con le Manfredi dissi che volevo esser pagato, mi hanno preso. La moda è politica”
STILI DI VITA – LA NOSTRA NUOVA INIZIATIVA. Da oggi ogni quindici giorni, il nostro giornale dedicherà una pagina ai Fatti di Moda. Ci occuperemo di stili di vita, di personaggi che hanno fatto grande l’abbigliamento italiano, di creatività e di cultura. Abbiamo deciso di farlo perché la moda rappresenta un settore che coinvolge più di un milione di lavoratori e perché influenza i comportamenti di intere generazioni. Il compito dei giornalisti è descrivere il mondo dalla A alla Z. Così da oggi nell’alfabeto del Fatto c’è pure la M. Ma raccontata a modo nostro.
Dice che “la moda è politica”, si definisce “di sinistra”, e che anche se le sue sfilate parlano di valori, denunciano diseguaglianze e disparità di genere, non ama “la dittatura del politicamente corretto”. Insomma non è un caso se sul braccio ha tatuata una frase di intellettuale irregolare e scomodo come Pierpaolo Pasolini, che nelle Lettere Luterane scriveva: “Non vogliamo essere subito già così senza sogni”. Eccolo qui l’altro Pierpaolo, al secolo Pierpaolo Piccioli da Nettuno, classe 1967, dal 2016 direttore creativo di Mason Valentino, e lo scorso anno vincitore per la seconda volta del premio Designer of the year, l’oscar della moda. Eccolo qui, seduto nell’atelier di piazza di Spagna di un marchio che per merito suo e della sua squadra ha chiuso l’ultimo bilancio con un fatturato di 1,41 miliardi, il 15% in più rispetto all’anno precedente. Il lusso, la moda, i soldi: in apparenza un ossimoro rispetto alle sue dichiarate convinzioni politiche.
Piccioli, le destre dicono che lei è un radical chic. Non è che hanno ragione? In fondo lei è radicale e molto chic…
(ride) Non mi offendono. Mi dà più fastidio quando da sinistra mi accusano di essere un comunista col Rolex. Perché per me il merito è di sinistra: io vengo dalla provincia, mi sono impegnato, non ho avuto raccomandazioni, pago le tasse in Italia. E farlo, in un Paese in cui tanti non lo fanno, per me è un modo per essere di sinistra: perché la scuola, la sanità pubblica sono diritti.
Lei nasce a Nettuno, in provincia di Roma. Cosa facevano i suoi genitori?
Mia madre aveva un bar, mio padre lavorava all’Acotral. A Nettuno, dove io ancora vivo, mio fratello fa il tabaccaio
Famiglia di sinistra?
Votavano Dc. Oggi scherzando capita che dica loro: è colpa vostra se ci siamo ridotti così. Loro adesso negano, ma da ragazzino per me erano un po’ preoccupati.
Preoccupati?
Io sono un po’ maniacale. Per un periodo leggevo solo classici della sinistra e persino qualche libro di memorie di ex brigatisti. Mara, Renato e io di Franceschini, Giustolisi e Buffa, lo trovavo pieno di ideali. Ma sono da sempre un non violento.
Ho letto che a 14 anni è stato travolto anche dalla passione per il cinema…
Sì, volevo andare a Roma per fare il Centro sperimentale e diventare regista. I miei mi dissero: ‘Prima fai il liceo’. Così passavo il tempo sfogliando riviste di cinema, poi di fotografia e infine di moda. A Roma ci finii dopo: per l’università, Lettere, e per fare l’Istituto europeo di design.
Che allora veniva considerato di serie B rispetto allo Ied di Milano…
Be’ allora Roma, al contrario di oggi, era tutta di serie B. Oltretutto io facevo il pendolare con Nettuno. In treno i miei compagni universitari erano tutti o quasi iscritti alla sinistra giovanile. Pure io votavo Pci. Quello di Berlinguer.
Il primo lavoro?
A vent’anni. Grazie alla scuola, faccio un colloquio per uno stage con la moglie e la figlia di Nino Manfedi, che avevano un piccolo atelier che collaborava con Cuccinelli. Io dico subito che non ho intenzione di lavorare gratis. E chiedo 1 milione di lire al mese. Mi prendono. Anni dopo mi dissero di aver pensato: o è pazzo o è un genio. Con loro, così come poi da Fendi, ho imparato tanto.
Ma se oggi arrivasse da Valentino qualcuno che rifiuta lo stage..
È successo. Un ragazzo bravissimo calabrese che non sapeva come vivere a Roma: lo ho assunto. Mi piace chi viene come me dalla periferia. Ha dentro qualcosa in più. Spesso vede più in là.
Più in là?
Sì, mi ricordo la prima volta che sono andato a Premiere Vision, a Parigi. La fiera dei tessuti. Tutti quelli fighi dicevano: quest’anno non c’è niente. C’erano chilometri di tessuti di ogni tipo. Io non capivo: con un solo stand ci potevi fare 25 collezioni. La differenza è ciò che hai in testa.
Ma nel mondo della moda ai maestri si dà del lei?
Da Manfredi e poi anche da Fendi c’era un ambiente familiare. Da Fendi solo quando arrivava Karl Lagerfeld (era consulente di Fendi, ndr) si bloccava tutto. Il giorno prima arrivano i fax con le disposizioni: per la pizza scrocchiarella, per ciò che voleva magiare, per ogni singolo particolare. Tutto doveva essere perfetto. Alle 10 del mattino eravamo tutti pronti per riceverlo e poi ovviamente lui arrivava in ritardo a sera…
E Valentino?
Gli ho sempre dato del lei. Anche ora. A me piaceva farmi raccontare di Fara Diba, di Bianca Jagger, della mitica casa di Roy Halston a New York. Lui però diceva con ironia che più che una casa gli sembrava un aeroporto.
Il vostro primo incontro?
A 30 anni. Io arrivo con Maria Grazia Chiuri (oggi la stilista di Dior, ndr) con cui lavoravo da Fendi. Fu buffo. Perché lui non aveva capito che eravamo in due. Era stupito che potesse funzionare e un po’ aveva ragione.
Però l’accoppiata ha avuto grande successo. Fino al 2016 disegnavate assieme..
Sì, ma quando sei in due hai solo un lavoro, una professione. Per anni non me ne ero reso conto. Poi un giorno ho incontrato per strada Roberto Capucci (storico stilista, ndr). Lui mi guarda e dice subito secco, assertivo: ‘Ho visto che vi siete separati. Finalmente, era ora! La creatività non è una cosa che si può dividere in due’. Dopo qualche mese ho capito. Solo se si lavora da soli la propria creatività è al servizio di ciò che si pensa.
Così lei sceglie come testimonial persone che raccontano o dicono qualcosa: l’attrice trans Dominique Jackson, la modella rifugiata Aduk Akech o le 45 modelle nere che nel 2019 fecero da controcanto a Salvini. Spesso però si dice che la sinistra si occupa tanto dei diritti civili e poco di quelli sociali…
Secondo me è vero. Ma c’è un lavoro, che è quello dei politici, e c’è un lavoro che è quello delle persone. Io sono una persona che fa anche politica attraverso la moda. L’immagine ha a volte una potenza che vale più di mille discorsi. Sui diritti mandi dei messaggi più forti. E oggi è più che mai il momento di farlo.
Oggi?
Sì, perché proprio oggi avrei voluto essere a Roma alla manifestazione organizzata contro la violenza di genere, ma sono fuori per lavoro. Siamo noi uomini per primi a dover cambiare questa cultura maschilista e machista. Anche qui l’immagine può davvero aiutare a cambiare.
E portare la propria famiglia sul red carpet che messaggio è? Nelle foto delle sfilate lei è sempre con Simona Caggia, con cui sta da quando avevate 19 anni, e i vostri tre figli…
Nessun messaggio. È la mia famiglia.
STILI DI VITA – LA NOSTRA NUOVA INIZIATIVA. Da oggi ogni quindici giorni, il nostro giornale dedicherà una pagina ai Fatti di Moda. Ci occuperemo di stili di vita, di personaggi che hanno fatto grande l’abbigliamento italiano, di creatività e di cultura. Abbiamo deciso di farlo perché la moda rappresenta un settore che coinvolge più di un milione di lavoratori e perché influenza i comportamenti di intere generazioni. Il compito dei giornalisti è descrivere il mondo dalla A alla Z. Così da oggi nell’alfabeto del Fatto c’è pure la M. Ma raccontata a modo nostro.
Dice che “la moda è politica”, si definisce “di sinistra”, e che anche se le sue sfilate parlano di valori, denunciano diseguaglianze e disparità di genere, non ama “la dittatura del politicamente corretto”. Insomma non è un caso se sul braccio ha tatuata una frase di intellettuale irregolare e scomodo come Pierpaolo Pasolini, che nelle Lettere Luterane scriveva: “Non vogliamo essere subito già così senza sogni”. Eccolo qui l’altro Pierpaolo, al secolo Pierpaolo Piccioli da Nettuno, classe 1967, dal 2016 direttore creativo di Mason Valentino, e lo scorso anno vincitore per la seconda volta del premio Designer of the year, l’oscar della moda. Eccolo qui, seduto nell’atelier di piazza di Spagna di un marchio che per merito suo e della sua squadra ha chiuso l’ultimo bilancio con un fatturato di 1,41 miliardi, il 15% in più rispetto all’anno precedente. Il lusso, la moda, i soldi: in apparenza un ossimoro rispetto alle sue dichiarate convinzioni politiche.
Piccioli, le destre dicono che lei è un radical chic. Non è che hanno ragione? In fondo lei è radicale e molto chic…
(ride) Non mi offendono. Mi dà più fastidio quando da sinistra mi accusano di essere un comunista col Rolex. Perché per me il merito è di sinistra: io vengo dalla provincia, mi sono impegnato, non ho avuto raccomandazioni, pago le tasse in Italia. E farlo, in un Paese in cui tanti non lo fanno, per me è un modo per essere di sinistra: perché la scuola, la sanità pubblica sono diritti.
Lei nasce a Nettuno, in provincia di Roma. Cosa facevano i suoi genitori?
Mia madre aveva un bar, mio padre lavorava all’Acotral. A Nettuno, dove io ancora vivo, mio fratello fa il tabaccaio
Famiglia di sinistra?
Votavano Dc. Oggi scherzando capita che dica loro: è colpa vostra se ci siamo ridotti così. Loro adesso negano, ma da ragazzino per me erano un po’ preoccupati.
Preoccupati?
Io sono un po’ maniacale. Per un periodo leggevo solo classici della sinistra e persino qualche libro di memorie di ex brigatisti. Mara, Renato e io di Franceschini, Giustolisi e Buffa, lo trovavo pieno di ideali. Ma sono da sempre un non violento.
Ho letto che a 14 anni è stato travolto anche dalla passione per il cinema…
Sì, volevo andare a Roma per fare il Centro sperimentale e diventare regista. I miei mi dissero: ‘Prima fai il liceo’. Così passavo il tempo sfogliando riviste di cinema, poi di fotografia e infine di moda. A Roma ci finii dopo: per l’università, Lettere, e per fare l’Istituto europeo di design.
Che allora veniva considerato di serie B rispetto allo Ied di Milano…
Be’ allora Roma, al contrario di oggi, era tutta di serie B. Oltretutto io facevo il pendolare con Nettuno. In treno i miei compagni universitari erano tutti o quasi iscritti alla sinistra giovanile. Pure io votavo Pci. Quello di Berlinguer.
Il primo lavoro?
A vent’anni. Grazie alla scuola, faccio un colloquio per uno stage con la moglie e la figlia di Nino Manfedi, che avevano un piccolo atelier che collaborava con Cuccinelli. Io dico subito che non ho intenzione di lavorare gratis. E chiedo 1 milione di lire al mese. Mi prendono. Anni dopo mi dissero di aver pensato: o è pazzo o è un genio. Con loro, così come poi da Fendi, ho imparato tanto.
Ma se oggi arrivasse da Valentino qualcuno che rifiuta lo stage..
È successo. Un ragazzo bravissimo calabrese che non sapeva come vivere a Roma: lo ho assunto. Mi piace chi viene come me dalla periferia. Ha dentro qualcosa in più. Spesso vede più in là.
Più in là?
Sì, mi ricordo la prima volta che sono andato a Premiere Vision, a Parigi. La fiera dei tessuti. Tutti quelli fighi dicevano: quest’anno non c’è niente. C’erano chilometri di tessuti di ogni tipo. Io non capivo: con un solo stand ci potevi fare 25 collezioni. La differenza è ciò che hai in testa.
Ma nel mondo della moda ai maestri si dà del lei?
Da Manfredi e poi anche da Fendi c’era un ambiente familiare. Da Fendi solo quando arrivava Karl Lagerfeld (era consulente di Fendi, ndr) si bloccava tutto. Il giorno prima arrivano i fax con le disposizioni: per la pizza scrocchiarella, per ciò che voleva magiare, per ogni singolo particolare. Tutto doveva essere perfetto. Alle 10 del mattino eravamo tutti pronti per riceverlo e poi ovviamente lui arrivava in ritardo a sera…
E Valentino?
Gli ho sempre dato del lei. Anche ora. A me piaceva farmi raccontare di Fara Diba, di Bianca Jagger, della mitica casa di Roy Halston a New York. Lui però diceva con ironia che più che una casa gli sembrava un aeroporto.
Il vostro primo incontro?
A 30 anni. Io arrivo con Maria Grazia Chiuri (oggi la stilista di Dior, ndr) con cui lavoravo da Fendi. Fu buffo. Perché lui non aveva capito che eravamo in due. Era stupito che potesse funzionare e un po’ aveva ragione.
Però l’accoppiata ha avuto grande successo. Fino al 2016 disegnavate assieme..
Sì, ma quando sei in due hai solo un lavoro, una professione. Per anni non me ne ero reso conto. Poi un giorno ho incontrato per strada Roberto Capucci (storico stilista, ndr). Lui mi guarda e dice subito secco, assertivo: ‘Ho visto che vi siete separati. Finalmente, era ora! La creatività non è una cosa che si può dividere in due’. Dopo qualche mese ho capito. Solo se si lavora da soli la propria creatività è al servizio di ciò che si pensa.
Così lei sceglie come testimonial persone che raccontano o dicono qualcosa: l’attrice trans Dominique Jackson, la modella rifugiata Aduk Akech o le 45 modelle nere che nel 2019 fecero da controcanto a Salvini. Spesso però si dice che la sinistra si occupa tanto dei diritti civili e poco di quelli sociali…
Secondo me è vero. Ma c’è un lavoro, che è quello dei politici, e c’è un lavoro che è quello delle persone. Io sono una persona che fa anche politica attraverso la moda. L’immagine ha a volte una potenza che vale più di mille discorsi. Sui diritti mandi dei messaggi più forti. E oggi è più che mai il momento di farlo.
Oggi?
Sì, perché proprio oggi avrei voluto essere a Roma alla manifestazione organizzata contro la violenza di genere, ma sono fuori per lavoro. Siamo noi uomini per primi a dover cambiare questa cultura maschilista e machista. Anche qui l’immagine può davvero aiutare a cambiare.
E portare la propria famiglia sul red carpet che messaggio è? Nelle foto delle sfilate lei è sempre con Simona Caggia, con cui sta da quando avevate 19 anni, e i vostri tre figli…
Nessun messaggio. È la mia famiglia.