Comprereste un accordo sul clima da un petroliere? Quando le questioni si fanno complesse, le domande devono essere semplici. Per sottolineare cortocircuiti grotteschi: le trattative in corso a Dubai per convincere chi governa il mondo di quello che sa già ma preferisce ignorare – bisogna abbandonare i combustibili fossili, ora – sono guidate dall’emiro di un petro-Stato che accompagna ogni successo sulla decarbonizzazione con intese separate, e meno pubbliche, per infrastrutture che riforniscano di idrocarburi vecchi e nuovi partner.
Il risultato è una conservazione dello status quo che elude la possibilità di abbattere le disuguaglianze attraverso la transizione energetica, perché nel nome del business is business con una mano si fa e con l’altra si disfa. Senza grossi scandali: è la consueta ingordigia per cui il denaro viene prima della salute, in certi casi della stessa sopravvivenza di uomini e luoghi. Ma il paradosso è anche la descrizione accurata di come la transizione energetica sia “un campo di battaglia”, per usare un’espressione particolarmente azzeccata di Giovanni Carrosio, in cui si scontrano “interessi diversi e idee di futuro contrapposte, in lotta per l’egemonia”. A proposito di domande semplici, quindi, tocca chiedersi anche quale sia la posizione del governo italiano, impegnato a promuovere urbi et orbi la scatola vuota del Piano Mattei e l’idea di fare dell’Italia “il grande hub energetico del Mediterraneo”, cioè di diventare un reticolo di tubi, appannaggio dei bilanci di Eni e Snam e del vecchio fossile, nonostante già oggi le fonti rinnovabili coprano più di un terzo dei consumi nazionali (35,7%), e l’eolico e il fotovoltaico da soli consentano un risparmio di 25 miliardi all’anno. L’ultimo decreto Energia fornisce conferme inquietanti: oltre a lasciare che 10 milioni di persone, tra cui molte fragili, finiscano nel cosiddetto “mercato libero” (un altro favore alle compagnie energetiche?), il provvedimento si appoggia prevalentemente sul gas al posto di spingere le fonti verdi.
È impossibile non rilevare la contraddizione con il RePowerEu, il nuovo capitolo del Pnrr dedicato proprio all’energia, che la Commissione Ue ha fatto pesare per l’approvazione delle modifiche del piano proposte dal governo. Qui infatti la situazione è rovesciata: dall’aumento di risorse per il Parco agrisolare agli incentivi per impianti fotovoltaici dedicati alle aziende, passando per gli investimenti per il risparmio energetico nell’edilizia sociale, l’impronta complessiva è la spinta su fonti pulite e su nuovi modelli di produzione e consumo. Perché queste differenze? Attenzione a non farsi tentare da consolanti narrazioni giornalistiche di un governo sdoppiato, il solito Dottor Jekyll e Mr. Hyde: la differenza tra i due approcci, infatti, dipende unicamente dalla cornice europea di regole, indicazioni e visione che guida il RePowerEu, sottraendolo al conservatorismo, alla miopia e agli interessi della pratica nazionale.
Detta altrimenti: dipende dalla capacità di dare una guida alla transizione, di indicare una direzione che non rimesti in paure motivate, ma che cerchi invece di diradarle fornendo una rotta e affrontando, settore per settore, le criticità e le spinte avverse. Per evitare che il campo di battaglia della trasformazione verde diventi un bagno di sangue, serve una politica nazionale democratica e condivisa, figlia di confronti e di sinergie, di un dialogo che identifichi i molteplici problemi del percorso e che li affronti in ogni campo investito, mantenendo come obiettivo la giustizia sociale. Certo: è un processo lungo, articolato, con moltissimi ostacoli. Ma è inevitabile. Nemmeno il nostro governo ormai lo nega più apertamente: perché allora aspettare ancora, mettendosi sulla via sbagliata?
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità