Il Fatto di domani. Cop 28, petrolio per sempre: dalla bozza dell’accordo salta l’abbandono dei combustibili fossili. Atreju come Sanremo: i meloniani tengono la suspence per l’ospite a sorpresa

Di FQ Extra
11 Dicembre 2023

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ATREJU, LA FESTA DEI FRATELLI D’ITALIA SOMIGLIA A SANREMO: SUSPENCE SULLA STAR INTERNAZIONALE. Fabio Rampelli avvisa i nostalgici della fiamma tricolore per evitare ogni malinteso: “Fascisti non ce ne sono per fortuna. Purtroppo c’è questo retro pensiero abbastanza diffuso”. La festa nazionale di Fratelli d’Italia a Roma, Castel Sant’Angelo, aprirà giovedì prossimo. Come a Sanremo (manco fosse Amadeus) Giovanni Donzelli ha tenuto la suspence e annunciato meraviglie, inclusa la star straniera: “Non sveleremo tutto il programma, ci sarà un ospite a sorpresa (probabilmente Sunak) e altri due ospiti, anche per motivi internazionali, saranno resi noti da qui a giovedì”. Il titolo è da riscossa: “Bentornato orgoglio italiano”. Di sicuro, Giorgia Meloni spera che sia di buon auspicio per le trattative europee sul Patto di Stabilità. Dall’esito del negoziato, nel Consiglio europeo di giovedì e venerdì, potrebbe dipendere il tono e i contenuti del discorso della premier a chiusura delle manifestazione, domenica 17 dicembre. L’Europa sarà al centro, con le elezioni di giugno 2024 alle porte. Del resto, Matteo Salvini ha aperto la sua campagna elettorale già il 3 dicembre, con il raduno dell’ultradestra del Vecchio Continente a Firenze. Il Capitano leghista ha cannoneggiato su Ursula von der Leyen e “l’inciucio” tra popolari e socialisti. Dopo il voto estivo, la maggioranza Ursula potrebbe fare il bis con il consenso del gruppo conservatore guidato proprio da Giorgia Meloni. Ad Atreju sono attesi circa 150 delegati di Ecr (Conservatori e dei Riformisti Europei) in arrivo da tutta Europa. L’invito è stato rifiutato dalla segretaria dem Elly Schlein. A Giuseppe Conte – già ospite in veste di premier – non è stato neppure recapitato. Ci sarà Santiago Abascal – leader di Vox, movimento spagnolo della destra neo-franchista – che oggi non ha dato prova di moderatismo. “Verrà un dato momento in cui la gente vorrà impiccare per i piedi” il premier spagnolo Pedro Sànchez: è la fosca previsione di Abascal riportata dal giornale argentino Clarìn. Giovanni Donzelli ha sminuito: “Non ci intromettiamo nella politica di Madrid, Santiago Abascal è un esponente importante dei Conservatori con cui discuteremo delle questioni europee, non di quelle interne spagnole”. Sul Fatto di domani vi racconteremo i preparativi per la festa meloniana.


COP 28, LA BOZZA DELL’ACCORDO RATIFICA IL MONITO OPEC: NESSUNA “USCITA” DAI COMBUSTIBILI FOSSILI. E IL NUCLEARE TORNA IN VOGA. “Il nostro pianeta è a pochi minuti dalla mezzanotte per quanto riguarda il limite degli 1,5 gradi. E l’orologio continua a fare tic tac”: è il monito del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, alla Cop 28. Eppure, il messaggio dell’Opec sembra essere arrivato forte e chiaro, a Dubai negli Emirati Arabi. Nei giorni scorsi, l’organizzazione dei 13 Paesi produttori di petrolio aveva invitato a rifiutare ogni accordo per l’eliminazione dei combustibili fossili. “Disgustoso”, il commento di Teresa Ribera Rodríguez, ministra spagnola e delegata dell’Ue al consesso emiratino. Domani la Conferenza delle Nazioni Unite chiuderà i battenti e oggi è arrivata la bozza dell’accordo, proposta dalla presidenza di Sultan Al Jaber: il testo non cita mai il phase out (l’uscita) dai combustibili fossili; ovvero il petrolio, il gas e il carbone continueranno a inquinare il pianeta fino a data da destinarsi. Del resto, già il 3 dicembre Sultan Al Jaber – amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), l’azienda petrolifera statale emiratina – aveva scioccato gli osservatori: “La scienza non indica la necessità dell’uscita graduale dai combustibili”. La bozza dell’intesa auspica la riduzione dei fossili in modo “ordinata ed equo, per raggiungere emissioni nette zero prima o intorno la metà del Secolo”. Nessun accenno agli obiettivi climatici da raggiungere entro il 2030, scadenza ineludibile nel percorso della transizione ecologica. Resta l’obiettivo di contenere il rialzo delle temperature globali entro 1,5°, con una domanda: come centrare il target senza l’abbandono dei combustibili fossili? La bozza suggerisce di puntare sulle fonti rinnovabili, ma anche sul nucleare e le tecniche per stoccare anidride carbonica. Il testo è approdato all’assemblea plenaria, prima dell’incontro di Al Jaber con i capi delegazioni. Ma cresce il disaccordo. Senza l’eliminazione graduale dei combustibili fossili “non possiamo accettare questo testo” ha dichiarato Wopke Bastiaan Hoekstra, Commissario europeo per l’azione per il clima. Le Isole Marshall hanno accusato: “Non firmeremo la nostra condanna a morte”. Per raggiungere l’accordo occorre l’unanimità dei 197 Paesi più l’Ue. Sul Fatto di domani, faremo il punto sulla battaglia per il clima alla Cop 28 di Dubai.


MES, MELONI: “UNO STRUMENTO, NON UN TOTEM”. LA CONFESSIONE DI CROSETTO: “IO SONO CONTRARIO”. E L’ITALIA TRATTA IN EUROPA SUL PATTO DI STABILITÀ. In Europa, il governo fa la faccia dura, ma poi si dovrà piegare. In Italia, altrettanto, nonostante (come abbiamo detto) il partito di Giorgia Meloni e la Lega siano sempre pronti a rispolverare all’occorrenza la retorica elettorale anti-Europa. Nel lungo Ecofin dell’immacolata, l’8 dicembre, l’Italia ha già ceduto alle nuove regole volute dalla Germania (lo ha raccontato Marco Palombi sul Fatto). Regole leggermente più morbide, ma che nella sostanza sono solo una nuova versione della stessa austerità di sempre. Formalmente, la trattativa sulla riforma del Patto di stabilità è in stallo, ma gli sherpa brussellesi lavorano e un accordo dovrebbe arrivare tra il 18 e il 21 dicembre, al prossimo appuntamento dell’Ecofin. Qui una sintesi della bozza di regole che circola ora. È forse anche per questo motivo che oggi il centrodestra tira fuori il Mes, il meccanismo europeo di stabilità che il nostro Paese è l’unico tra i 27 a non aver ancora ratificato e che il governo sta evitando di portare in Parlamento per il voto. Giorgia Meloni ha picconato la segretaria dem Elly Schlein: “dice ‘non possiamo tenere ferma tutta Europa. Forse non sa che il Mes esiste, chi lo vuole attivare lo può tranquillamente attivare. Parliamo di strumenti e non di totem ideologici”. La premier ha sollecitato una riflessione sul perché “nessuno vuole attivarlo: questo sarebbe il dibattito da aprire”. Dopo un anno di rinvii, l’ultima ipotesi sull’approdo in Aula è gennaio 2024. Un’arma da usare nel braccio di ferro con i falchi? Forse. Almeno, questo è quello che suggerisce l’intervista di Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri (e di Forza Italia, che non ha problemi con il Mes) al Messaggero. Tajani prima sul Patto di stabilità dice di augurarsi “si possa trovare un accordo entro Natale ma non vogliamo sia penalizzante per noi”, e poi sul Mes minimizza: “Un mese in più o in meno (per approvare la norma) non credo cambi le cose. Non dobbiamo pensare che il Mes sia una questione di calendario ma di politica macroeconomica. Anche se noi come FI siamo favorevoli, bisogna essere consapevoli che non basta, dobbiamo completare l’architettura composta anche dal Patto di Stabilità, dall’unione bancaria e dall’armonizzazione fiscale”. Ecco la strategia italiana riassunta. Anche se poi a Bruxelles, come abbiamo visto, i propositi bellicosi si traducono di assensi mediati, visto il peso relativo del nostro Paese. Dalla Lega, Claudio Durigon è intervenuto a correggere il tiro e annuncia che la ratifica del Mes non sarà usata come ricatto. Ma la dichiarazione più dirompente sembra quella del ministro della Difesa Guido Crosetto. Che non pago delle polemiche che lo riguardano (a proposito di magistratura e controllo politico), in un’intervista si lascia scappare di essere sempre stato contrario al Mes “Io ho la stessa posizione che avevo 12 anni fa, e meno male che non voto in Parlamento”. Sul Fatto di domani vedremo quali sono le forze in campo e i prossimi passi pianificati dalla destra.


MEDIO ORIENTE, BIBI FORMA LA SQUADRA PER GESTIRE GAZA DOPO LA GUERRA. HAMAS: “VOGLIAMO IL CALIFFATO”. Sollecitato dalle pressioni americane, al 66° giorno di guerra – in seguito al massacro del 7 ottobre portato a termine da Hamas, con 1.200 morti e 237 ostaggi – il premier israeliano Bibi Netanyahu elabora una prospettiva per quando il conflitto sarà terminato; negando che ci sia l’intenzione di spostare la popolazione palestinese di Gaza fuori dalla Striscia, il primo ministro ha pensato ad un piccolo team per mettere a punto un piano. Secondo Canale 13, il gruppo sarà guidato da Tzachi Hanegbi, fedele alleato di Netanyahu nel partito Likud e attuale consigliere della sicurezza nazionale; ci saranno anche il ministro degli affari strategici, Ron Dermer, esponenti dell’esercito, dello Shin Bet e del Mossad e l’ambasciatore Mike Herzog, che è impegnato negli Stati Uniti. Hanegbi avrebbe valutato come “molto alta” la probabilità di coinvolgere gli Emirati Arabi e l’Arabia saudita nella gestione di Gaza, anche nella fase di ricostrizione. Al momento, però, le fasi della battaglia restano cruente: sale a 104 il numero dei soldati israeliani caduti, mentre i palestinesi ritengono che le vittime siano più di 18.000. Il Washington Post sostiene che il 16 ottobre Israele ha utilizzato bombe al fosforo nel sud del Libano. L’ex ministro degli interni di Hamas, Fathi Hammad attacca il leader dell’Autorità palestinese Abu Mazen, definendolo “patetico” e poi rivela: “Vogliamo un Califfato con Gerusalemme capitale”. Gli estremisti islamici proseguono il lancio di razzi, anche sull’area di Tel Aviv. Ancora aperta la questione dei 137 ostaggi ancora costretti nella Striscia; 20 di loro sarebbero già morti. Il portavoce dell’ala militare dei fondamentalisti, Abu Obaida, ha ribadito che “Israele non riavrà vivi i prigionieri senza accettare le nostre condizioni”. I familiari degli ostaggi chiedono al governo ebraico di riavviare le trattative. Sul Fatto di domani leggerete altri particolari sulla giornata e sul piano post guerra, e una intervista a Yossi Beilin, ex ministro israeliano e “architetto” degli accordi di Oslo del 1993 con l’Autorità palestinese.


LE ALTRE NOTIZIE CHE TROVERETE

Il lavoro uccide: ancora un operaio morto a Milano. Un 28enne di origini egiziane questa mattina è rimasto schiacciato da una cassaforma metallica al decimo piano di un cantiere edile. Durante lo spostamento di una autogru il manufatto si è sganciato uccidendolo. Nei primi otto mesi del 2023 sono state 657 le denunce per decesso sul lavoro presentate all’Inail.

Mps, Viola e Profumo assolti in appello per il caso derivati. In primo grado gli ex vertici Mps erano stati condannati a 6 anni di carcere (tre per Paolo Salvadori, allora presidente del collegio sindacale) nel processo per falso in bilancio e aggiotaggio sul filone delle indagini che riguarda la contabilizzazione dei derivati Santorini e Alexandria. L’appello ha ribaltato la sentenza, assolvendoli per il fatto non sussiste. La decisione dei giudici arriva dopo la conferma della Cassazione delle assoluzioni di tutti gli imputati nel procedimento madre sul caso dell’istituto di credito.

Ucraina, le elezioni russe si svolgeranno anche nei territori occupati. La Commissione elettorale russa ha deciso che le presidenziali del 17 marzo 2024 si svolgeranno anche nelle regioni ucraine occupate: Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson. La notizia arriva quando Kiev sollecita l’Unione europea a prendere in considerazione la sua adesione per non restare isolata. Il presidente Zelensky sul rallentamento degli aiuti militari occidentali ha reagito così: “L’Ucraina riuscirà a superare lo stallo negli aiuti da parte degli Usa causato dalle divergenze al Congresso”. La Casa Bianca ha annunciato un nuovo pacchetto di forniture belliche per fine mese.


OGGI LA NEWSLETTER IL FATTO ECONOMICO

Stablecoin, la sfida delle grandi banche a un settore da 130 miliardi

di Nicola Borzi

Scatta l’attacco del sistema bancario al mondo delle stablecoin, gli asset digitali collegati a valute ufficiali o a un loro paniere. Sinora il settore da 130 miliardi di dollari è stato dominato da operatori privati, come Tether e Circle, che hanno emesso token collegati soprattutto al dollaro Usa. Queste cripto funzionano in sostanza come strumenti di ingresso per l’acquisto e lo scambio di altre criptovalute, soprattutto il Bitcoin, ma sono esposte alle critiche specialmente per la loro scarsa trasparenza sulle riserve valutarie a garanzia.

(Continua)


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