Ammalorato. È un aggettivo che ricorre sempre più spesso nei verbali delle ispezioni compiute dall’Arpa, l’agenzia per la protezione dell’ambiente, nei reparti del gigantesco impianto siderurgico il cui destino conosceremo questa settimana. Ammalorate, deteriorate, in disuso sono vaste porzioni della fabbrica. Ammalorato lo stato d’animo dei lavoratori che non si fidano più di nessuno, nella provincia col più alto numero di cassintegrati d’Italia, e col dubbio di essere spremuti fino all’ultima goccia di acciaio liquido prima della chiusura. Ammalorata è Taranto, divisa fra chi vive un dramma e chi invece nella chiusura ci spera.
Dai vertici aziendali e dal basso giunge lo stesso avvertimento: stavolta siamo davvero sull’orlo del baratro. Eppure sembra che Taranto ci arrivi in catalessi, senza accorgersene. Come nella favola, “Al lupo! Al lupo!”.
Nella città dei due mari si parla più volentieri del sindaco trasmigrato dal Pd a Renzi che non della sorte dell’acciaieria che tutti continuano a chiamare Ilva. Anche se mercoledì, dopodomani, a Palazzo Chigi i sindacati incontrano un governo tuttora esitante sul da farsi; e subito dopo, venerdì, a meno di fatti nuovi i due azionisti litiganti – multinazionale privata ArcelorMittal e Invitalia statale – torneranno in assemblea a ripetersi: “Basta, in Acciaierie d’Italia io non ci metto altri soldi”.
La prima scossa di terremoto si è avvertita mercoledì scorso, quando l’A.i.g.i., associazione di una settantina di ditte dell’indotto, ha comunicato per lettera ai dipendenti che, “nostro malgrado”, questo mese non pagheranno né gli stipendi né la tredicesima. Vanno giù duro: “Non intravediamo spiragli di programmazione”, scrivono. “Al prossimo 31 dicembre non si registrano ordini, non c’è un programma lavorativo”.
Era il luglio 2020 quando l’amministratore delegato, Lucia Morselli, capoazienda in quota Mittal (62%), annunciava trionfalmente: “L’ex Ilva torna agli utili e senza debiti finanziari. Adesso tocca allo Stato”. Chi se li è messi in tasca quegli utili? Com’è che adesso in cassa non c’è un euro, nonostante i 680 milioni già stanziati dallo Stato (socio di minoranza) e già spesi? Com’è che la produzione è crollata sotto i 3 milioni di tonnellate annue?
Con la dottoressa Morselli bisogna andarci cauti, ha la querela facile. Insieme a tanti altri, ha portato in tribunale sia il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, sia il segretario del sindacato più forte in azienda, Rocco Palombella della Uilm. L’imprenditore Gozzi aveva dichiarato che l’acciaieria di Taranto, a seguito del “disimpegno” di Mittal, “difficilmente può garantire la qualità dei prodotti e la sicurezza nell’ambiente di lavoro”. Il sindacalista Palombella, che giusto mezzo secolo fa entrava da operaio in una fabbrica che conosce come le sue tasche, ha affermato che “Mittal tiene gli impianti di Taranto a scartamento ridotto” e che “Morselli è la persona giusta per annientare lo stabilimento”. Denuncia peraltro archiviata dalla Procura di Taranto.
Quando lo incontro, Rocco Palombella, che pure è da sempre un moderato, lancia l’allarme: “Stanno scherzando col fuoco. Se il governo riconfermerà l’affidamento della governance alla multinazionale indiana, qui scoppia la rivoluzione”. E si prende la responsabilità di aggiungere – come del resto fanno anche l’Usb e la Fiom – che la minaccia di non pagare gli stipendi ai lavoratori dell’indotto è dettata dalla paura che il governo decreti l’amministrazione controllata, congelando i loro crediti. Per loro, insomma, meglio la Morselli che la nazionalizzazione. Leggo in un comunicato dell’Usb che il governo, “per evitare disordini sociali e disinnescare la bomba”, verrebbe costretto “a elargire ancora risorse pubbliche che verranno puntualmente dilapidate dal socio privato”.
Davvero c’è una rivoluzione in vista a Taranto, una bomba da disinnescare? A dire il vero, parlando con tanti operai, sindacalizzati e non, avverto un clima diverso. Depressivo. Hanno paura. Durante i periodi di cassa integrazione chi può cerca di inventarsi lavori alternativi: locali, palestre, pescherie, piccolo artigianato. Dicono che se si presentasse l’occasione di un esodo incentivato, la coglierebbero al volo. Raccontano la giornata dentro lo stabilimento come una lenta agonia. Tre altiforni su cinque inattivi. Le scorte scarseggiano. Navi con le materie prime ferme in rada perché non scaricano senza pagamento anticipato. Manutenzione solo in caso di emergenza e comunque appaltata alle ditte. Spostamenti interni limitati dalla carenza di gasolio.
Cos’è diventata la vita operaia degli 8.100 dipendenti diretti, che poi di fatto sono dimezzati fra Cig, turni e assenze? Scelgo, garantendogli l’anonimato, la testimonianza di un quarantenne padre di famiglia che chiameremo Cataldo, come il patrono di Taranto. Mi chiede: “Ha visto il film Palazzina Laf, sul reparto confino in cui la gestione Riva internava i dipendenti scomodi a far niente, spingendoli all’esasperazione? Quello con Michele Riondino operaio disposto a vendersi e Elio Germano capo senza scrupoli? Ebbene, noi non siamo in punizione come loro, ma stiamo diventando una grande Palazzina Laf. Timbriamo il cartellino e in reparto non c’è niente da fare. Ci sediamo, si chiacchiera, oppure, se ce li hai, curi i tuoi affari. I capi non ti dicono niente perché anche a loro tocca lo stesso. Ogni mattina mi sveglio e mi chiedo cosa ci vado a fare. Scioperare? A cosa servirebbe? Finché dura, o finché non mi danno l’incentivo, resto lì. Si guadagna meno di prima ma cerco di inventarmi un altro lavoro fuori”.
Con i due altiforni attivi che vanno a singhiozzo, il che ne accelera l’usura, mentre la decarbonizzazione e l’acciaio green restano un miraggio, verrebbe naturale pensare a un lento accompagnamento, conveniente per tutti, verso la chiusura nel giro di qualche anno. Solo che sono sopraggiunti la crisi di liquidità e lo scontro aperto fra socio privato, che tiene nelle sue mani il bastone di comando, e socio pubblico che così stando le cose vede infrangersi il piano decennale di riconversione annunciato da Franco Bernabé, presidente dimissionario senza poteri di Acciaierie d’Italia. Il calo della produzione e la copertura dei parchi minerali hanno fatto calare, per fortuna, la dispersione delle polveri nocive che avvelenavano i quartieri limitrofi. Ma ora la Asl e l’Arpa rilevano emissioni del cancerogeno benzene superiori ai livelli di guardia, causate dal deperimento degli impianti.
Così il governo Meloni viene a trovarsi di fronte a un bivio drammatico. Procedere con l’amministrazione controllata, cioè a una nazionalizzazione di fatto? Il ministro pugliese Raffaele Fitto, che gestisce il dossier Taranto, fin qui si è opposto perché teme una voragine di spesa pubblica senza garanzie di rilancio. Cui c’è da sommare il contenzioso giudiziario che di sicuro Mittal intenterebbe. Bernabé invece punta ancora a esautorare l’ad Morselli per scongiurare la chiusura. Tanto più che la costosissima decontaminazione di un’area di 15 milioni di metri quadri, la tanto attesa bonifica, in questo caos ne uscirebbe compromessa.
Il segretario della Fiom, Francesco Brigati, racconta che, insieme agli altri sindacati, l’estate scorsa sono riusciti a parlare brevemente con la presidente del Consiglio in vacanza alla masseria di Bruno Vespa: “Ci ha detto che se non si trova un nuovo partner privato rischiamo di fare l’aumento di capitale per poi ritrovarci daccapo fra due anni. Ma chi è il privato che oggi investirebbe su Taranto?”. Mi ha colpito sentire che sia la Fiom, sia l’Usb per bocca di Vincenzo Mercurio, non escludono più categoricamente l’ipotesi della chiusura: “Oggi sarebbe un dramma, ma non ci sentiamo legati per forza al futuro di quella fabbrica, bensì al futuro dei 20 mila lavoratori e delle loro famiglie, che necessitano di un paracadute sociale e di una riconversione occupazionale e ambientale del territorio”.
Taranto, come sempre, è divisa e lacerata. Quando incontro l’associazione Genitori tarantini li trovo accanitamente ostili ai sindacati. Non ha dubbi Massimo Castellana: “Altro che nazionalizzazione, basta con il carbone, per i nostri figli vogliamo un futuro salubre che passa per la chiusura e la bonifica”. Il rischio, nella rassegnazione dei più, è di avere disastro occupazionale e disastro ambientale insieme.
La parola passa al governo, e speriamo che sia una parola chiara perché finora è rimasto scandalosamente zitto.
LEGGI – Indotto ex Ilva, niente stipendi né tredicesime
LEGGI – Come muore un’acciaieria: gli allegri carnefici dell’Ilva