Un “padrone” (nel libro è citato proprio così, per dichiarare subito come la si pensa e, soprattutto, come si è vissuto) che spiegava, al figlio del suo autista e della sua segretaria, come il sindacalismo fosse “la prostituzione dell’intelligenza”. Poi, il signor De Carolis, un sindacalista appunto, amico del padre, capace di trasmettere a quel ragazzo l’idea che “la prostituzione dell’intelligenza” era invece il modo per disprezzare “il coraggio, il senso di libertà e l’amore per i diritti”. Infine, l’incipit del secondo capitolo di Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline: “Quando ci sei, ci sei”. Che vuol dire una cosa di un’etica assoluta e ineludibile: “Si è in parte, che tu lo voglia o no, ciò che si desidera essere e fare e in parte ciò che capita”.
Eccole le fondamenta di Gian Carlo Caselli, il “lari e i penati” di un uomo e di un magistrato. Raccontati in un libro che se scritto 30 anni fa, in un’altra età della vita, avrebbe potuto intitolarsi La giustizia spiegata a mio figlio. Gli anni sono passati, però, e allora il diario breve di un’esistenza è diventato Giorni memorabili che hanno cambiato l’Italia (e la mia vita): scritto – con passione ed elegante chiarezza – assieme al figlio Stefano, giornalista del Fatto Quotidiano. La cui mano, da bravo cronista, si coglie di volta in volta nella cura dei particolari, nelle ambientazioni laterali per rievocare epoche, costumi e modi di vivere, nell’ironico e carsico richiamo alla comune fede calcistica per il Torino Calcio: anch’essa trasmessa dal signor De Carolis.
In quelle pagine, un argomento è taciuto, ma la scelta di questa formula “familiare” è, senza alcun dubbio, anche un tributo del giudice istruttore delle Brigate Rosse e poi del procuratore capo di Palermo (e dei ripetuti tentativi del partito armato e poi di Cosa Nostra per ucciderlo) al sacrificio e alla vita blindata che, per decenni, lo hanno coinvolto con la moglie e i figli.
I giorni memorabili sono dieci, scelti per sintetizzare una storia sia personale che collettiva: di Caselli, ma anche della magistratura italiana. E che, proprio per quel “coraggio e amore per la libertà”, gli sono valse ingiurie contraddittorie e altalenanti: “toga rossa”, “giudice fascista”, “pm mafioso”. L’esordio non è un’inchiesta di Caselli. Ma quella, invece, di un pretore di Livorno, Gianfranco Viglietta, e poi di un suo collega di Genova, Adriano Sansa, sui fanghi inquinanti della Montedison di Scarlino che portò, nel 1974, alla condanna di uno dei potenti di allora, Eugenio Cefis. L’archetipo della magistratura che agisce secondo il Codice penale, ma anche seguendo “coraggio e amore per la libertà”.
Il resto sono davvero pezzi di storia che hanno cambiato l’Italia (e anche, in qualche caso, consolidato i suoi vizi e le sue piaghe peggiori). L’inizio degli anni di piombo a Torino e a Genova, il ricordo doloroso del procuratore Bruno Caccia poi ucciso dai killer della ‘ndrangheta, il pentimento di Patrizio Peci, vittima dei una vendetta brigatista che anticipa quella mafiosa nei confronti del piccolo Santino Di Matteo sciolto nell’acido, l’istruttoria sui 64 morti del Cinema Statuto del 1983.
Infine, il lento avvicinamento di Caselli a Palermo, prima al Csm (tra i pochi, addirittura fra i rappresentanti della sua stessa corrente, Magistratura democratica, a non mettersi di traverso alla nomina di Giovanni Falcone al vertice dell’ufficio istruzione di quella città), poi con la nuova chiamata del “Se ci sei, ci sei”: dopo Capaci e via D’Amelio. Ecco l’arresto del “capo dei capi”, Totò Riina, ecco il processo a Giulio Andreotti che la penna (è probabile) di Stefano Caselli definisce una “tragicommedia”, e poi la legge berlusconiana “contra personam” per impedirgli di diventare procuratore nazionale antimafia.
La conclusione è il ritorno a Torino, per dirigere gli uffici giudiziari della sua città, con una grande inchiesta sulla ‘ndrangheta salita al Nord e infine sui movimenti violenti contro il Tav della Val Susa. Che gli “regalerà” l’incredibile accusa, sui muri vicini al palazzo di Giustizia, di essere un “pm mafioso”, e decreterà anche la sua uscita polemica da Magistratura democratica: proprio alla vigilia della pensione. Manca, è la sensazione leggendo il libro, solo un capitolo di quella storia. Un’omissione comprensibile e, forse, molto meditata. La spiegazione sul perché la “toga giusta” non ha mai voluto accettare le molte proposte di trasformarsi in un politico. Un no netto, anche se mai accompagnato da critiche alle scelte altrui. Quando “ci sei”, però, quando hai deciso di essere e fare ciò che ti piace, ma pure di affrontare ciò che ti capita, probabilmente sai anche che non devi accettare quello che altri vogliono farti fare.