Il femminicidio di Giulia Cecchettin, avvenuto l’11 novembre scorso per mano dell’ex fidanzato Filippo Turetta, ha scosso profondamente il Paese con un’onda di commozione che ha portato 500mila persone alla manifestazione organizzata da Non Una di Meno, a Roma, in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza alle donne. Il doppio delle presenze rispetto agli anni passati. Una commozione che si è toccata con mano anche nel giorno dei suoi funerali trasmessi in televisione e celebrati il 5 dicembre scorso nella basilica di San Giustina, davanti a una folla di centinaia di persone che ha seguito le esequie in lacrime. Ma è accaduto anche altro dopo il femminicidio di Giulia. Il 1522, il numero nazionale antiviolenza, ha registrato un’impennata di richieste di aiuto che sono raddoppiate da 200 a 400 al giorno. Anche nei Centri antiviolenza della rete D.i.Re i contatti sono aumentati, soprattutto in Veneto e in Friuli Venezia Giulia. A Pordenone e a Udine c’è stato un aumento del 20% degli accessi, mentre a Padova sono addirittura quadruplicati salendo a 40 donne accolte durante la settimana rispetto alla media delle 15 accolte negli anni precedenti. Molte ragazze, sole o accompagnate dalle madri, ma anche donne mature, hanno varcato la soglia dei centri antiviolenza per la prima volta, raccontando alle operatrici di temere per la propria vita e riconoscendo nello stalking commesso da Filippo Turetta le violenze che loro stesse subivano. La sorte della studentessa padovana ha portato in poche ore a un aumento nell’emersione di un fenomeno che si perpetua nelle relazioni di intimità con numeri che sono ben al di sopra delle denunce fatte alla polizia giudiziaria. Non sappiamo quanto questo trend durerà ma abbiamo toccato con mano come la morte violenta e iniqua di una giovane donna abbia turbato le coscienze come mai era avvenuto prima. È stato davvero squarciato il velo dell’indifferenza sul femminicidio e sulle asimmetrie e le discriminazioni che sono alla base delle violenze contro le donne o sono entrate in gioco altre suggestioni?
Giulia Cecchettin non è stata la prima donna spazzata via da quell’odio antico e per certi aspetti inspiegabile, che arma le mani degli uomini. Ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna. Accade quando questa dice basta e chiude una relazione o quando tradisce le aspettative nel suo ruolo di genere. Accade quando rifiuta la subalternità, si ribella al controllo, o quando osa anteporre se stessa e i propri bisogni o desideri, a quelli del partner o della famiglia. Negli anni e nei mesi passati, altre tremende storie di vite spezzate hanno turbato il Paese: Pamela Mastropietro, Desiree Mariottini, Saman Abbas per ricordarne alcune ma nessuna ha suscitato un cordoglio collettivo come è accaduto con Giulia Cecchettin. Nella 22enne padovana molti hanno visto il riflesso specchiato delle proprie figlie, sorelle e nipoti. Giulia stava per laurearsi in ingegneria biomedica, desiderava iscriversi a un corso per diventare fumettista e disegnare favole per l’infanzia, era stata colpita precocemente da un lutto doloroso come la perdita della madre ed era una ragazza acqua e sapone. Una brava ragazza che i media, saccheggiando le foto dal suo profilo Instagram, ci hanno mostrato nella vita quotidiana mentre era teneramente abbracciata a un albero, sorridente ad una festa tra amici, assorta mentre si dondolava su una altalena, giocosa mentre spingeva un carrello in un magazzino. Generosa ed empatica perché si prendeva cura dei problemi di Filippo Turetta che minacciava il suicido mentre meditava di ucciderla.
In Giulia non è stato possibile rintracciare nessuna colpa sulla base di quella doppiezza morale che condanna le vittime di violenza insieme ai loro aggressori o assassini. Il rischio che si corre è quello di un fraintendimento con la celebrazione laica di una contemporanea Maria Goretti. La giovane che nel 1902 venne uccisa da Alessadro Serenelli durante un tentativo di stupro e fu canonizzata nel 1950 per aver resistito all’aggressione proteggendo la sua verginità, fino alla morte. Celebrata perché innocente. Come Giulia? Il cui candore ha gettato una luce piena e senza ombre sull’inaccettabile violenza commessa da chi le ha tolto la vita. La consapevolezza che la violenza può toccare qualunque donna, di qualunque età o condizione sociale, si affievolisce quando le donne assassinate sono percepite come “distanti” perché vivono situazioni problematiche, perché sono straniere, perché sono sensuali, perché non hanno, secondo una morale comune che ancora resiste, tutti i crismi delle “brave ragazze”. Sono suggestioni che le hanno rese impermeabili al cordoglio collettivo e alla consapevolezza sulla matrice sessista e culturale della violenza che le ha uccise.
Quando Marcela Lagarde coniò il termine femminicidio indicando, nella violenza maschile, l’atto estremo in un sistema di oppressioni e violazioni dei diritti delle donne, finalmente rovesciò la responsabilità della violenza dalle vittime agli aggressori. Sollevò le donne dalla colpa per attribuirla a un sistema socio culturale che ha legittimato, giustificato e normalizzato la violenza maschile per molti secoli. Il femminicidio è stato ed è un gesto estremo e funzionale a ripristinare gerarchie di potere tra uomini e donne e a preservare l’ordine simbolico. Il dubbio che sia avvenuto un fraintendimento si rafforza se si guarda alle reazioni aggressive fino alla violenza verbale scagliate contro Gino Cecchettin per aver sollecitato gli uomini ad assumersi la responsabilità di un cambiamento culturale. Così è avvenuto con le ingiurie rivolte a Elena Cecchettin quando sul cancello di casa, disperata, ha denunciato la matrice patriarcale della violenza subìta dalla sorella ricevendo addirittura accuse di stregoneria. Padre e figlia hanno fatto uscire dalla loro sfera privata lo strazio per la morte di Giulia portando all’attenzione dell’opinione pubblica un crimine che fa parte di un fenomeno che deve essere affrontato politicamente, ma in quel momento alla commozione collettiva si è affiancata una rancorosa insofferenza. Una parte della società italiana non è pronta a riconoscere che alla base della violenza contro le donne non ci sono i peccati e gli errori che rendono le vittime corresponsabili bensì il potere maschile. Persino molti intellettuali come Massimo Cacciari, Erri De Luca o giornalisti come Michele Santoro, hanno respinto la tesi della matrice patriarcale dimostrandoci che non si deve nominare il patriarcato invano.
Resta il dubbio. Il femminicidio è un problema politico che rischia di rimanere invischiato, ancora, in valutazioni morali sulla presunta colpa o innocenza delle vittime. È di questo che dobbiamo continuare a occuparci.