Mentre tutt’intorno si sgretolano le nostre certezze, nulla appare più sicuro di ciò che conosciamo. E così, in tempo di guerre, adunate neofasciste e influencer che scompaiono come neve al sole, la moda si rifugia nel classico, facendo dell’esattezza sartoriale la risposta a tutte le nostre insicurezze. Basta eccessi e stravaganze, basta sperimentazioni gender fluid e basta anche con le provocazioni. Ormai la gente non si stupisce più di nulla. Neanche di missili e bombe: figuriamoci di un uomo in minigonna. Un ribaltamento che scardina stereotipi e pregiudizi, sottraendo il completo maschile dal cliché del cumenda con la panza e del burocrate impomatato alla Mario Draghi. Ecco allora che giacca e cravatta, bollate fino a pochi mesi fa come noiose, retrogradi, patriarcali, diventano oggi pura avanguardia. Lo abbiamo visto prima a Pitti e poi sulle passerelle della Moda Uomo a Milano: il classicismo è la chiave di volta delle collezioni per il prossimo Autunno/Inverno.
Ciò comporta non solo un ritorno alla tradizione dell’alta sartoria italiana, ma anche una rivalutazione di ciò che affascina coloro che, paradossalmente, non seguono la moda o addirittura la disdegnano. E qui sta il trucco: con l’economia in fase di stallo per le tensioni geopolitiche, i brand sanno bene che non è il momento di colpi di testa.
La concretezza è la chiave per garantirsi profitti: vende più un cappotto che un bomber, un pantalone con le pinces di un paio di bermuda. E, soprattutto, il completo mette tutti d’accordo: i super ricchi che possono permettersi di spendere anche 20, 30 mila euro e più per un abito su misura di pregiatissimo cachemire; ma anche l’impiegatino di provincia che se ne compra uno nuovo all’anno stando ben attento a scegliere il miglior compromesso qualità/prezzo. Così facendo, consapevoli o meno, i grandi brand portano però a galla anche una questione maschile irrisolta che riguarda il modo in cui l’uomo afferma se stesso. Una parte (considerevole) di uomini è ancora convinta che “l’abito faccia il monaco” e quindi che indossare giacca, camicia e cravatta gli garantisca autorevolezza e potere, in una società social-centrica dove l’apparenza è ciò che conta e il valore si misura per ciò che si possiede. Dall’altra ci sono invece maschi “in cerca d’autore”, smarriti e insicuri, che cercano di destreggiarsi in un campo minato dalle derive del politicamente corretto e dai retaggi di un patriarcato duro a morire.
Ecco allora che il guardaroba maschile diventa un terreno di gioco dove il classico si reinventa costantemente, si attualizza con i materiali e i tagli, confondendo i confini di genere.
Il completo sartoriale diventa punto di convergenza tra maschile e femminile, non nel senso delle teorie gender fluid ma come ha fatto Sabato De Sarno da Gucci. Il giovane direttore creativo ha presentato in passerella a Milano una collezione che è sostanzialmente la trasposizione in chiave maschile di quella della Donna mostrata a settembre ma assai più convincente. La sartorialità è il focus, ricrea le mutande di lana come si usava un tempo e, anche se traspaiono ancora una certa ispirazione a Tom Ford ed echi del suo passato in Valentino, pian piano si va delineando la sua personalità.
Certo non è facile lavorare con la responsabilità di un obiettivo di fatturato da 15 miliardi posto dal padrone di casa Pinault, patron di Kering a cui Gucci fa capo, ma è sulla strada giusta. Basta guardare al “caso” Dolce & Gabbana. Dacché i due stilisti Stefano Gabbana e Domenico Dolce hanno virato il timone dal massimalismo delle stampe esotiche o animalier al minimalismo della sartoria i fatturati si sono risollevati. La nuova estetica elegantemente contemporanea e discretamente erotica che mette al centro il savoir faire artigianale piace. E vende. Così, anche Prada tratta del rapporto conflittuale tra lavoro e tempo libero e tra progresso e Natura con una collezione così magistralmente perfetta nei codici da far pensare che Miuccia abbia giocato con l’intelligenza artificiale dicendo: “Hey ChatGpt, disegnami Prada”. Raramente prima d’ora si era vista una tale omogeneità di pensiero e di obiettivi.
In questo processo, spiccano le aziende a conduzione familiare che hanno saputo tenere botta, innovandosi ma restando fedeli alla propria tradizione, come Canali, 1989 Studio, Lardini, Corneliani, Boglioli e Brioni, con le sue sublimi giacche destrutturate in cachemire, così leggere da poter essere appallottolate nel palmo di una mano. E se Zegna si fa avanguardia grazie allo stilista Alessandro Sartori, Lubiam riattualizza l’eleganza dei gentiluomini di un tempo mentre Kiton mette addirittura in mostra alla Triennale come nascono i suoi completi sartoriali. Guai, però, a ridurre tutto questo sotto l’ormai abusata etichetta del quiet luxury: come dice Cucinelli, qui si parla di stile personale, non di anonimato. Il classico diventa il faro dell’innovazione, una dichiarazione audace che proclama che, in un mondo in cui tutto sembra essere stato già detto, c’è ancora spazio per la sorpresa, per la reinvenzione. Il maestro è ovviamente “Re” Giorgio Armani, che – a quasi 90 anni – rilegge se stesso e viene citato dal giovane Luca Magliano, uno degli stilisti di nuova generazione più promettenti che ha sfilato a Firenze durante Pitti.
Alla fine, le sfilate maschili italiane non fanno altro che attestare il carattere del nostro stile: commerciale ma artigianale, tradizionale ma moderno. Dietro questi abiti c’è infatti un comparto che è la seconda voce del Pil nazionale, un sistema che occupa 600.000 persone e nel 2023 ha prodotto 65 miliardi di giro d’affari. E proprio le collezioni maschili rappresentano il 20% del fatturato abbigliamento e accessori.