Negli Anni 90 la narrazione con cui si aprì la grande stagione delle privatizzazioni era che serviva a migliorare la governance dei colossi statali, sottraendoli al “ricatto della politica”. È stato un disastro ma oggi, che la governance è cambiata, il governo Meloni riprende quel filo senza neanche inventarsi una scusa. C’è un grande non detto nel piano di privatizzazioni da 20 miliardi che il ministro Giorgetti ha inserito nel Def – Poste, Eni, forse Fs (intanto Mps e Raiway) – e vende in giro per il mondo: i numeri mostrano che non esiste una ragione economica che giustifichi la cessione di quote per ridurre un debito pubblico da 2.800 miliardi. Non esisteva nemmeno 30 anni fa, ma oggi sono gli stessi manager scelti dal Tesoro a sposare soluzioni che a un occhio ingenuo paiono solo ingegneria finanziaria da disperati, ma sono in realtà un regalo ai grandi fondi azionisti. Come può finire lo si vede con Autostrade per l’Italia, dove Blackstone e Macquarie litigano con Cdp per poter strappare più dividendi che all’epoca Benetton. C’è un filo che accomuna tutte queste imprese: un flusso di cassa ingente e costante, trasformarlo in dividendi è solo questione di volontà, come ci ricorda la vicenda Aspi. I fondi comprano quote di minoranza ma comandano. D’altronde Giorgetti ha detto che la cessione della rete Tim al fondo avvoltoio Kkr “ha registrato ampia soddisfazione” al forum di Davos. Poi, come per l’Ilva, toccherà ad altri rimettere il dentifricio nel tubetto.
Poste. Dopo la prima privatizzazione con la quotazione del 2015, il Tesoro ha il 29,26% del capitale, Cdp il 35%: l’idea è di vendere una cifra di poco inferiore al 20% della quota ministeriale. Ai corsi di Borsa (peraltro in calo dal picco del 2022) al massimo si arriverebbe a 2,7 miliardi. Sarebbe una perdita secca per lo Stato: a fronte di un risparmio di circa 100 milioni sul minor debito da emettere, il Tesoro rinuncerebbe ad azioni che dovrebbero fruttare 260 milioni in dividendi nel solo 2023. Rinunciando agli utili distribuiti, ovviamente la perdita salirà negli anni. D’altronde il tasso di emissione dei titoli di Stato nel 2023, anno del picco dei tassi, è stato del 3,76%, il rendimento medio delle azioni Poste Italiane supera il 6%. Di chi è questa brillante idea? Non si sa, ma l’Ad Matteo Del Fante pare entusiasta e potrebbe annunciarla nel piano industriale di marzo. “Quello che possiamo dire – ha spiegato agli analisti – è che un aumento della quota del flottante del 10-20% potrebbe consentire anche ai grandi fondi internazionali di entrare nel capitale”. L’operazione non porterebbe un euro all’azienda e quindi non è chiaro perché un manager dovrebbe essere contento di veder scendere l’azionista pubblico. Un’ipotesi viene dai numeri: Poste è ormai un colosso bancario che cresce nei servizi finanziari e assicurativi (+6,5% e +11% annuo nel 2017-2022) e arranca nei pacchi e nella posta tradizionale (-6,4%), cioè quel che resta del servizio pubblico universale fondato su un’infrastruttura, costruita con soldi pubblici, che ha unito il Paese. Aumentare il peso dei fondi azionisti aumenterà la pressione a spremere il conto economico, magari a scapito dei servizi “pubblici” che lo Stato le affida: si è già visto con le riduzioni di personale e la chiusura delle sedi periferiche. Poste è entrata anche nell’energia e dal 2015 sono stati distribuiti 4,7 miliardi di dividendi: per un manager di norma questo significa arricchirsi per le performance.
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Eni. L’idea per il gruppo guidato da Claudio Descalzi è offerta dal cosiddetto “buyback”: l’acquisto di azioni proprie con cui i manager fanno felici gli azionisti. Eni concluderà il suo piano di acquisiti da 2,2 miliardi ad aprile. Una volta terminato, sterilizzerà le azioni acquistate, in questo modo gli azionisti vedranno salire la loro quota senza fare nulla. Lo Stato ha il 32% del capitale: il 4,6% è in mano al Tesoro, il resto a Cdp. L’idea sarebbe di far vendere al ministero la sua quota, ma grazie al buyback quella totale non dovrebbe calare: ai prezzi attuali l’incasso sarebbe di 2 miliardi. Qui il risparmio sarebbe inferiore ai 100 milioni, ma si rinuncerà ad ottenere più dividendi per la quota persa (150 milioni nel 2023, rendimento oltre il 6% anche qui). Il buyback è una manna anche per i fondi, che avranno una quota azionaria (e di dividendi) maggiore, oltre a un valore di Borsa più alto: avranno più peso e già oggi dominano il flottante che vale due terzi del capitale. D’altronde la strategia è già quella di macinare utili. Eni ha aiutato i governi a trovare gas alternativo a quello russo ma ha fatto poco o nulla per alleviare i rincari. Nel 2022 ha fatto 13 miliardi di utili (nel 2023 sfiorerà i 10): oltre 5 li ha destinati a dividendi e buyback, mentre nelle rinnovabili ha investito meno che nella sola raffinazione (480 milioni). A dicembre ha fatto entrare il fondo Energy Infrastructure Partners nella controllata del green.
Ferrovie. Nel 2014 il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan promise di privatizzare il gruppo entro l’anno, quotando l’azienda e cedendo una quota. Oggi l’Ad Luigi Ferraris pare abbia ventilato a Giorgetti oltre 4 miliardi di incassi cedendo il 40%, la stessa idea naufragata 9 anni fa, con tanto di liti tra i manager sul destino della rete ferroviaria, che è un monopolio naturale e (in teoria) non può passare dal pubblico al privato (il disastro di Railtrack in Gran Bretagna è li a ricordarcelo). Il Mef pensa di vendere pezzi di controllate minori, ma è tentato dall’idea di incassare in un colpo solo il 20% del suo obiettivo. I rischi sono enormi.
Le altre. Sotto la pressione dell’Ue, il Tesoro ha venduto il 25% di Mps per 920 milioni e punta a raddoppiare. Le svendite disperate piacciono anche in Rai, che ha deciso di cedere il 15% di Raiway, la controllata che possiede torri e antenne, da due anni in attesa di fusione con Ei Towers. Niente da fare: si cede per fare cassa (e facendo pure crollare il titolo).