Sono 37 i tavoli di crisi industriale recensiti dal ministero dello Sviluppo economico e del Made in Italy in quella che il suo titolare, Adolfo Urso, ha definito “operazione trasparenza”. Nell’elenco ci sono pezzi di storia italiana: da Ansaldo energia all’ex Ilva, passando per Brioni, Gkn, Marelli, Menarinibus, Natuzzi, Piaggio Aero. Ci sono poi anche altri 22 tavoli definiti “in monitoraggio”, cioè teoricamente in via di risoluzione: e basti dire che l’ex Alitalia rientra in questa seconda categoria. La sostanza è che siamo davanti alle macerie dell’economia italiana, nonché all’ultimo grande tradimento della politica: il governo dell’orgoglio nazionale, scelto da (poco) popolo per il popolo, già pronto a chiedere nuovo potere e cambiamenti costituzionali, si è dimenticato nei fatti di quella politica industriale che, al suo insediamento, aveva menzionato come missione strategica. E la cui mancanza oggi, secondo la Cgil, travolge 183 mila lavoratrici e lavoratori.
Il caso sempre d’attualità è Taranto, dove l’acciaieria che fu la più grande di Europa, perno della nostra manifattura, serbatoio di lavoro e, in un’altra epoca, di vantaggio competitivo, è stata condannata all’agonia dal cumulo di gravi errori, a partire dalla sua privatizzazione. Oggi l’indotto rischia di perdere 120 milioni di crediti – dopo quelli andati in fumo nel 2015 – e gli operai della fabbrica sono aggrappati all’ennesimo scampolo di cassa integrazione: il tutto al ritmo delle promesse sulla bonifica imminente, l’elettrificazione dei forni, l’acciaio verde. La colpa non è certo solo di Giorgia Meloni, ultima arrivata in una catena d’errori e omissioni che dura da decenni. Ma dopo essere ricorsa all’espediente di commissariare un’azienda già commissariata – quante volte si può fare il giochetto per prendere tempo che non c’è? – la presidente del Consiglio dovrà infine decidere: l’acciaio è strategico? E se sì, come farlo convivere con la transizione energetica obbligata? E come preservare la salute, oltreché il lavoro, di 20 mila famiglie? Il problema non è solo la siderurgia: il settore automotive, abbandonato dalla stirpe Fiat dopo aver ricevuto 220 miliardi di euro di aiuti dal 1975 al 2012, attraversa analoga trasformazione, e coinvolge, contando l’indotto, 70 mila persone. In attesa di risposte, tocca mettere le mani avanti: se da ogni crisi nasce una opportunità, come ama dire Giorgia Meloni, allora è bene sapere che privatizzare i pochi colossi di Stato non è il metodo. Si incassa qualcosina, ma si rischia di perdere il controllo, cioè l’ultima occasione di decidere quale futuro si vuole per il Paese.
La finestra temporale per la transizione è strettissima: il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) dell’Onu segnala che è necessario azzerare le emissioni entro il 2050 per evitare catastrofi inimmaginabili, il che significa ripensare soprattutto l’economia. L’International Energy Agency ha calcolato che entro il 2030 gli investimenti in energia verde devono salire di due punti percentuali per elettrificare settori cruciali: una spesa imponente ma anche l’occasione unica per uscire da una stagnazione decennale e creare nuove catene del valore in Italia, con vantaggi sia per le imprese che per chi vi lavora. Per riuscirci, però, lo Stato non può assistere inerme: deve guidare e indirizzare, creare nuovi rapporti tra il pubblico e il privato, assegnare missioni strategiche. Un anno fa, un’indagine del Centro Ricerche Enrico Fermi rilevava che l’Italia è ancora tra le prime cinque nazioni europee più competitive su brevetti molto complessi per le tecnologie verdi, con Lombardia e Lazio a fare da traino. La base, quindi, c’è: sarebbe un paradosso insopportabile che il governo dell’orgoglio scegliesse l’ignavia delle non decisioni, condannando l’amata Nazione.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità