Ci si è chiesti, per un intero secolo, perché Matteotti sia stato ucciso in quella primavera, scatenando – come era prevedibile – una reazione che avrebbe certamente ricompattato il fronte antifascista, uscito indebolito dalle ultime elezioni dell’aprile 1924 che, anche grazie alla “legge truffa” Acerbo (il “premio di maggioranza”), avevano nettamente ridimensionato tutto lo schieramento di opposizione, dai socialisti delle varie confessioni ai comunisti, e soprattutto avevano messo nell’angolo il Partito popolare di don Sturzo.
È vero che in cruciali zone del Paese rimaneva alta la tensione tra organizzazioni fasciste e cattoliche. Ma il pericoloso e ribelle arciprete di Argenta, nel Ferrarese, un certo don Giovanni Minzoni, era stato sapientemente assassinato dagli squadristi. E soprattutto, una serie di abili mosse mussoliniane di “riconciliazione” con il Vaticano avevano apparentemente stabilito un prezioso canale di alleanza con le gerarchie cattoliche: erano state utili a questo fine l’aumento delle congrue per sacerdoti e vescovi, l’introduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole e nell’università, il bando delle pubblicazioni oscene, la definizione di “delitti contro lo Stato” per la bestemmia e per la distribuzione di contraccettivi; e infine, il prezioso salvataggio finanziario del Banco di Roma, che lo stesso cardinal Gasparri – segretario di Stato di papa Pio XI – aveva seguito personalmente.
Nella nuova, promettente situazione di ravvicinamento Stato-Chiesa, le gerarchie avevano opportunamente imposto all’irrequieto don Luigi Sturzo di “non fare il guastafeste”, chiedendogli come gesto d’obbedienza di lasciare la segreteria del Partito popolare. Ciò era avvenuto, con brindisi di Mussolini: Sturzo aveva dichiarato di andare “in esilio” e un gruppo consistente di deputati popolari erano passati direttamente ai fascisti (altri, tra cui De Gasperi, Gronchi e Spataro, scelsero l’opposizione).
La frana della vecchia classe dirigente non era stata, tuttavia, soltanto prerogativa del fronte clericale. Quando, alla vigilia delle elezioni, Mussolini personalmente si era rivolto agli esponenti più prestigiosi dello schieramento liberale – i “vittoriosi di Vittorio Veneto” – proponendo una vasta alleanza per tradurre in numeri parlamentari, attraverso una unica lista comune (“il listone”) e un ampio premio di maggioranza la nuova Italia dei fascisti e dei loro alleati, la risposta degli storici esponenti dell’élite monarchica e liberale del Paese non aveva mancato, talvolta con entusiasmo, di aggiungersi al coro: Vittorio Emanuele Orlando si era dichiarato disponibile a “fiancheggiare con estrema simpatia il movimento fascista”; Salandra espresse il suo “meditato, leale e cavalleresco consenso” al governo Mussolini e si definì “fascista onorario”, Alberto Giovannini aderì dopo un colloquio col futuro duce. Si presentarono candidati nel “listone” tutti i più prestigiosi rappresentanti della Confindustria, fra cui il segretario Gino Olivetti e il presidente Benni. Alla fine, si era constatato che tra i 356 candidati mussoliniani – poi tutti eletti grazie alla legge-truffa maggioritaria – solo 202 provenivano dai ranghi fascisti. L’azione di promesse e convinzioni portata avanti dal futuro duce era stata complessa e faticosa; al punto che Mussolini si sfogò, sorridendo, durante un discorso: “Questa è l’ultima volta che si fanno le elezioni così; la prossima volta voterò io per tutti” (e molti, sui giornali, presero quel curioso proposito per una battuta scherzosa).
È vero – si ragionava da parte di qualche oppositore – talvolta l’uomo di Predappio esagerava; era “un impulsivo”, o forse un fanfarone. Non era però questa la convinzione di quel rompiscatole di Giacomo Matteotti, tra i pochi, fra i capi dell’opposizione (e con lui tra gli altri Piero Gobetti, il giovane Gramsci, l’anziano Giovanni Amendola), ad aver capito ciò che stava succedendo. Di Amendola, e dei suoi preveggenti timori, ha poi raccontato il figlio Giorgio: “Il giudizio più diffuso negli ambienti frequentati un tempo da mio padre era che gli squadristi ‘esageravano’ con le violenze, arrivavano ormai a prendersela non solo con i semplici operai, ma anche con deputati ed ex ministri: Ma in fondo – molti di loro lo dicevano o mostravano di pensarlo – anche mio padre ‘esagerava’ con la sua opposizione.”
Il giovane Matteotti era, dunque, tra i pochi che avevano capito. Mentre scherzava sui “pussisti che se la fanno sotto”, un mese prima dell’omicidio Mussolini aveva dettato, parola per parola, i suoi allarmanti propositi al Popolo d’Italia: “Quanto a Matteotti, volgare mistificatore, notissimo vigliacco e spregiatissimo ruffiano, sarà bene che egli si guardi: che se dovesse capitargli di trovarsi, un giorno o l’altro, con la testa rotta (ma proprio rotta) non sarà certo in diritto di dolersi dopo tanta ignobiltà scritta e sottoscritta” (la dichiarazione, testuale, è del 3 maggio 1924). Rampollo di una famiglia benestante della zona di Rovigo, lontano da ogni retorica populistica, intransigente difensore dei dettami della legge e dei diritti della sua gente, Giacomo Matteotti era stato collocato da Mussolini e dai suoi nell’elenco degli avversari “da distruggere”. Alla vigilia delle elezioni del maggio 1921, i fascisti locali lo avevano aggredito, caricato a forza su un camion e trasportato in aperta campagna, simulando la sua fucilazione e – scrissero le cronache – “recandogli oltraggio” (l’espressione è di Turati) con una sadica tortura. Matteotti non si era rassegnato, e aveva scritto al segretario del suo partito: “È necessaria una revisione della nostra stessa dottrina e tattica. È inutile proclamarsi legalitari, finché ci continuano a rompere la testa”. L’aspirante “duce” nei suoi rapporti politici privati non nascondeva il duplice binario – “legalità e violenza” – della politica fascista. Nella forma, l’uomo aveva introdotto e rivendicato il suo titolo (inesistente dal punto di vista legale) di “capo del governo”. Quanto agli avversari politici (ma anche ad alcuni insopportabili dissidenti fascisti), costoro erano spesso riservatamente segnalati ai prefetti, per le opportune persecuzioni legali. L’oppositore doveva essere “accoppato sul posto” oppure “tolto dalla circolazione”; a volte bisognava limitarsi a “spezzargli la schiena”. Ai funzionari di maggior rispetto l’ordine da eseguire contro gli avversari politici era indirizzato in modo più educato: “Faccia purgare e poi bastonare quei signori” (ciascuna di queste espressioni è stata abbondantemente registrata e propagandata, nelle proprie memorie, dai più stretti collaboratori del capo).
Uno dei dirigenti più vicini al presidente del Consiglio ha registrato e diffuso il secco ed esplicito ordine da Roma al prefetto di Torino nei confronti del giovane liberale (“fastidiosissimo”) Piero Gobetti: “Rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore fascismo e governo”. L’ossessione di Mussolini nei confronti degli avversari politici, del resto, si esplicava ogni mattina con la pignola segnalazione dei nomi dei lettori che sottoscrivevano per la Voce Repubblicana, l’Avanti!, la Giustizia, l’Unità e Italia libera. Il compito burocratico da eseguire era quello di “inviare i nomi dei sottoscrittori ai Fasci locali affinché fossero purgati e bastonati”. In questo clima, insieme intimidatorio e farsesco, Giacomo Matteotti fu rapito e poi assassinato a Roma in un giorno assolato di giugno.
(3 – Continua)