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Fine corsa Sgarbi, il triste tramonto del sottosegretario beato tra gli uccelli

31 Gennaio 2024

Quando ho sentito il sottosegretario alla Cultura dire in tivù “Tiro fuori l’uccello”, ho pensato per un secondo che era ora – oh, finalmente! – si smetteva con le polemiche e gli insulti e si tornava a parlare di arte. Mi aspettavo in effetti che tirasse fuori un dipinto di Paolo Uccello (1511-1574), il grande maestro fiorentino della prospettiva, ed ero già pronto al perdono seguendo supinamente la vulgata degli ultimi trent’anni: vabbè, Sgarbi sarà quel che sarà, ma di arte ne capisce, un grande classico dell’ottundimento italiano. Invece no, Sgarbi voleva proprio tirare fuori l’uccello, inteso come pene, e faceva l’elegante gesto di aprirsi la patta dei pantaloni, nella plastica rappresentazione di un atteggiamento provocatorio che già in tutte le seconde medie del pianeta sarebbe considerato un po’ cretino e degno di una visita dal preside.

Avendo (purtroppo) l’età per ricordarmelo, mi è venuto in mente Iggy Pop, strepitoso punkettone e rocker di pregio, detto l’Iguana, che durante i concerti l’uccello lo tirava fuori davvero, per la gioia dei fan che pogavano sotto il palco: un simbolo di trasgressione senza se e senza ma, e soprattutto senza essere sottosegretario alla Cultura (anche se io il vecchio Iggy l’avrei fatto ministro).

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Insomma, non intendo qui entrare nel merito delle inchieste giornalistiche (e giudiziarie) di cui Sgarbi è oggetto, né di quadri trovati in soffitta, o rubati, o che ricompaiono qui e là fotografati, modificati, tagliuzzati, sequestrati, eccetera eccetera: lo fanno colleghi più bravi e coraggiosi di me, che per questo si sentono dire – sempre dal sottosegretario alla Cultura – che dovrebbero morire male. Quando si dice la forza della dialettica. Mi limiterò a una piccola notazione in margine, diciamo così “culturale” su un alto rappresentante del governo italiano che si comporta come un chitarrista heavy metal in piena crisi creativa. Forse, chissà, andrebbe trovata una via di mezzo tra l’antico “politichese” da Prima Repubblica e il dadaismo sgarbista ispirato all’esibizionismo da giardini pubblici con impermeabile aperto a sorpresa (in quel caso, di solito, arriva una volante). E non vorrei nemmeno che il gesto di Sgarbi facesse scuola tra i colleghi sottosegretari degli altri ministeri, perché sarebbe imbarazzante per il Paese (pardon: Nazzzione) veder sventolare apparati riproduttivi maschili qui e là nel divampare del dibattito politico, magari durante il question time alla Camera… Onorevoli colleghi…

Si rimarca qui, en passant, che ciò che oggi si rimprovera a Sgarbi non è un’intemperanza improvvisa e sconsiderata, ma un atteggiamento che tutti conosciamo, che in qualche modo ci si aspetta da lui come fedeltà al personaggio. A parte i colleghi di Report che volevano fargli qualche domanda nel merito di inchieste e indagini in corso, chi invita Sgarbi lo fa quasi sempre confidando nell’incidente (e indecente) diplomatico, nell’uscita sghemba e scandalosa, nell’impennata dei toni, nella parolaccia liberatoria, nell’insulto da rissa per il parcheggio. In poche parole, si confida nella presenza del prestigioso sottosegretario alla Cultura per aumentare gli ascolti, o i clic, o i titoli sui giornali il giorno dopo, perché Sgarbi è un format. Purtroppo, anche i format più collaudati stufano, passano di moda e funzionano sempre meno, vengono lentamente archiviati nella memoria collettiva, lontani e dimenticati come la mucca Carolina e non è lontano il giorno in cui si dirà: “Sgarbi chi? Quello dell’uccello?”. Ah, vabbè. Amen.

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