Spesso, è da bambini che si inizia a sfidare la legge di gravità. Nessuno sa perché alcuni si sentano in armonia con il proprio corpo, mentre altri combattono per far corrispondere il “fuori” al “dentro”. Nessuno sa perché c’è chi si adatta ai ruoli “assegnati” e chi no. È il genere che è variante e fluido, specie a questa età, spiegano gli esperti. E la linea di demarcazione ognuno ce l’ha dentro di sé. La chiamano “incongruenza” o “disforia” di genere. La prima fase va dai 4 ai 12 anni. Tra i 12 e i 18 per lo più scompare – in 7-8 casi su 10 – ma, se così non è, si passa alla “fase diagnostica estesa”. Seguendo un percorso guidato da un’equipe multidisciplinare (un neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza, un endocrinologo, uno psicologo dell’età evolutiva), inizia la soppressione – reversibile – della pubertà con iniezioni di triptorelina, il farmaco della discordia, per consentire al bambino o bambina di indagare meglio la forza e la stabilità dell’incongruenza, evitando la sofferenza psichica generata dalla trasformazione del corpo in una direzione opposta al genere al quale sente di appartenere. Poi si interviene con la terapia ormonale, parzialmente reversibile, cross-sex. È necessaria la diagnosi di disforia di genere confermata dall’equipe e il consenso dell’adolescente e dei genitori. E solo dopo i 18 anni, e dopo la pronuncia di un Tribunale, si arriva, seguendo la legge 164 del 1982, all’intervento chirurgico – irreversibile – di riconversione del sesso: MtF, Male-to-Female, o FtM, Female-to-Male. O intervento “di affermazione del genere”, un’affermazione che passa prima di tutto attraverso una “demolizione” degli organi sessuali e poi un’eventuale “ricostruzione” (falloplastica o vulvo-vaginoplastica). Una legge ormai obsoleta, quella in Italia, superata dalle realtà di tutta Europa, e che ha visto nel 2015 ampliare il proprio raggio di azione grazie alla Cassazione e alla Corte costituzionale che hanno stabilito come l’operazione chirurgica non sia più condizione necessaria per il cambio di sesso.
“Bisogna sempre partire dal dramma alla base di una decisione così drastica che può portare fino all’intervento chirurgico. La convinzione di appartenere all’altro sesso è precoce, permanente, senza diventare, però, un’idea di tipo delirante o ossessivo”, spiega la psicologa Laura Scati. Nel determinare gli sviluppi dell’identità di genere fin dall’infanzia, gli aspetti biologici, psicologici e sociali, pur essendo distinti, sono connessi. E hanno il loro peso. La disforia può essere transitoria. L’esito di un’adolescenza transgender – lo confermano anni di ricerche – è difficilmente prevedibile. Ci sono casi, in buona parte, che “desistono” (8 su 10) e casi che invece “persistono”. E poi ci sono gli adolescenti che si identificano rispetto al genere in modo non binario, né M né F. Ecco perché un tempo di vigile attesa è fondamentale: un tempo dolorosissimo nel quale gli adolescenti, e le loro famiglie, vanno sostenuti in un percorso complesso che li metta al riparo da sofferenze evitabili o azioni impulsive. “Quello che chiedo alla mia creatura è del tempo: per lui e per noi”, ha scritto Emma Mirò, madre di un figlio in transizione, nel suo Sai ma’, sono trans. “Non con la prospettiva che cambi idea. Ma deve avere la consapevolezza giusta e capire il suo percorso. Sarebbe stato più semplice dire: facciamolo subito. Ma sono una madre che sta cercando una via di uscita a una situazione disperata. E lo sto facendo con gli occhi bendati, a bordo strada, in tangenziale”.
Lo smarrimento è la prima cosa. Poi, viene il senso di colpa. E l’angoscia. Il corpo di tuo figlio diventa un campo di battaglia. I gesti – spesso – di autolesionismo. La sua e la tua sofferenza, tu che “per i tuoi figli vorresti una vita in discesa e quello, invece, sai che è un percorso di dolore”. Così racconta un nostro affezionato lettore, padre di una ragazzina che un giorno, dopo il lockdown, confessa a casa di voler “diventare maschio”. “L’hanno chiamata ‘disforia di genere ad insorgenza rapida’. Il medico di base ci dichiara la sua incompetenza e ci indirizza al centro specializzato. Lì la psicologa ci spiega che nostra figlia va assecondata, perché a potenziale rischio suicidio. Il centro non effettua terapia esplorativa e, data l’enorme affluenza, si limita ad accompagnare i ragazzi nel percorso di affermazione. ‘Se la ragazza è convinta il certificato di disforia verrà rilasciato in sei sedute di affiancamento al percorso. Serve sostegno, non siate transfobici’, ci disse”. Di storie così in queste settimane ne abbiamo raccolte molte. Anche di genitori per cui, invece, rivolgersi a un centro come quello dell’ospedale Careggi di Firenze ha significato veder rinascere il proprio figlio o figlia.
In Italia i centri sono solo nove. Bari, Bologna, Torino, Trieste, Roma (due), Napoli, Firenze e Torre del Lago. Bologna e Torre del Lago sono consultori gestiti dal Movimento per l’identità di genere, in convenzione con il Sistema sanitario. A Firenze, al Careggi, opera il centro ispezionato oggi dal ministero della Salute, finito nella bufera dopo l’ultima interrogazione parlamentare di Maurizio Gasparri sul trattamento con la triptorelina. Il riferimento, praticamente per tutti, è la scuola olandese, nata intorno alla metà degli anni 90, con il cosiddetto approccio affermativo basato sul pilastro “il sesso è un costrutto fluido e non binario”. “Il nostro obiettivo è aiutare il paziente ad affermare la propria identità sessuale, secondo le linee guida dell’associazione mondiale per la salute dei transgender”, dice Jiska Ristori, psicoterapeuta al Careggi. Un modello che si affianca a quello del “siedi e osserva”, più orientato a una vigile attesa, e che tiene conto che gli specialisti che seguono questi ragazzi devono avere il tempo, insieme ai soggetti coinvolti, di valutare, a volte immaginare, gli sviluppi di un’identità in discussione. Soprattutto è fondamentale analizzare se ci si trovi di fronte a un’incongruenza di genere oppure a un’altra condizione che sposta su quel piano problemi psicologici, esistenziali o familiari di altra origine (circa il 30% dei bambini gender variant manifesta sintomi di depressione o di disturbi riconducibili allo spettro autistico, oltre ad ansia o idee suicidarie). Ma alcuni Paesi – da Finlandia a Norvegia e Svezia – hanno iniziato a fare marcia indietro, rivedendo dal 2020 le linee guida. Troppe le variabili in gioco. Non solo per gli effetti della triptorelina ma anche per la pratica psicoterapeutica. “Occorre massima cautela: l’incongruenza può manifestarsi nei primi anni di vita o nella fase dello sviluppo, ma il confine che la separa da comportamenti a volte solo eccessivi è molto labile”, osserva Pietro Ferrara, ex presidente della Società di pediatria, che ricorda il caso della clinica Tavistock di Londra, chiusa dopo la denuncia di una ragazza avviata alla transizione a 16 anni, con mastectomia bilaterale, che accusò poi la struttura di averla indotta a diventare maschio.
La triptorelina, in Italia, è stata autorizzata nel 2019 da Aifa. “Un trattamento richiesto dallo psicoterapeuta dopo un percorso di almeno sei mesi” spiega Carolina Salerno, presidente della Società di endocrinologia pediatrica. “Il rischio è la demineralizzazione delle ossa, che può essere monitorata e che è reversibile nel tempo. L’obiettivo è il benessere mentale del ragazzino o della ragazzina”. Un farmaco utilizzato in ambito pediatrico già da 30 anni, per ritardare l’adolescenza in casi di pubertà precoce. Un trattamento salvavita, per scongiurare il pericolo di suicidi, dicono molti psicoterapeuti. A non pensarla più così sono le autorità sanitarie finlandesi: “La terapia ormonale, ad esempio la soppressione puberale, altera il corso dell’identità di genere nello sviluppo”. E anche quelle svedesi, secondo cui “le prove scientifiche sono insufficienti”. E allora c’è chi ricorda, tra complottismi e realtà, che la genesi dell’uso della triptorelina, in Olanda, fu associata a uno studio della psichiatra Anneolu De Vries – era il 2006 – sponsorizzato dalla Ferring Pharmaceuticals, che commercializza oggi il farmaco.
In Italia non ci sono monitoraggi sui minorenni e le ricerche sono poche, ma, secondo alcuni studi, dal 2 al 7% dei bambini mostra regolarmente comportamenti che “travalicano” l’identità di genere. In assenza di numeri, gli esperti stimano un balzo del 300% in dieci anni: “Emersione spinta da vari fattori, tra cambiamenti culturali e minore pressione dello stigma”, dice Paolo Valerio, presidente dell’Osservatorio nazionale identità di genere. E, secondo molti genitori, esisterebbe anche un fattore lockdown. Isolati, chiusi nelle loro camere, quasi sempre immersi nel mondo di Instagram o di Tumblr. I racconti delle madri e dei padri sono copioni che si ripetono. “Mia figlia, 16 anni, era sempre davanti al pc. Fin da piccola ha avuto problemi psicologici, ma con l’isolamento stava peggio. Alla fine mi ha detto: voglio fare la transizione”. “Mio figlio ha cominciato a manifestare un forte malessere a 12 anni. Con il lockdown tutto è precipitato. Era sempre chiuso in camera sui social. Gli è stata diagnosticata la depressione maggiore e ha iniziato la terapia farmacologica. Un giorno mi ha detto: sono trans”. “Sono un medico, so cosa significa un percorso di transizione. I primi problemi mia figlia li ha avuti a 13-14 anni. Fughe, droghe, autolesionismo. Con la pandemia è esploso tutto. E poi ci ha detto che voleva cambiare sesso. La diagnosi di disforia di genere è stata fatta da uno psicologo dell’azienda sanitaria: abbiamo riscontrato moltissima superficialità”.
La superficialità, oltreché strumentalità, che caratterizza a ondate anche il dibattito politico. Eppure sappiamo, è la ricerca a dirlo, che per ridurre le richieste di intervento di riassegnazione del sesso – un percorso dolorosissimo – ed evitare eventuali desister pentiti, la prima cosa su cui intervenire, prima ancora di ispezioni e crociate anti gender, sarebbero proprio le leggi: in Olanda e in Spagna da quando il cambio di genere sui documenti è possibile anche senza riassegnazione anatomica gli interventi sono diminuiti. Perché il tema rimane sempre quello dell’autodeterminazione ma anche del condizionamento sociale: “Se fossi nato su un’isola deserta – ha scritto Mary Nicotra nel suo TransAzioni – sarei stato ugualmente transessuale? Avrei avuto bisogno di operarmi?’”.