Il pieno utilizzo delle banche dati a disposizione dell’Agenzia delle Entrate e di tutti gli altri archivi e registri pubblici per prevenire e contrastare l’evasione fiscale deve ancora attendere. Perché i tentativi di aggirare i paletti della privacy, in nome dell’interesse pubblico a recuperare gli oltre 80 miliardi di gettito sottratti allo Stato, sono stati stoppati da un parere del Garante. Il governo Meloni, nonostante le uscite sul “pizzo di Stato” e le vecchie sparate contro il “Grande fratello fiscale”, su questo fronte intendeva proseguire sulla strada tracciata dagli esecutivi precedenti. Ma l’authority per la protezione dei dati personali si è messa di traverso, ottenendo che nella versione finale del decreto legislativo su accertamento e concordato preventivo biennale non sia confermata la possibilità di limitare i diritti dei titolari dei dati senza bisogno di un via libera preventivo. E nemmeno l’utilizzabilità delle informazioni postate sui social dai contribuenti.
Non è un caso, insomma, se mercoledì mattina il viceministro con delega al fisco Maurizio Leo ha sottolineato in una sede istituzionale – la commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria – che “con il Garante si dovrà ragionare sul fatto che l’evasione è come un macigno, tipo il terrorismo”, per cui “si deve tutti collaborare” per permettere all’amministrazione finanziaria “di acquisire elementi a supporto dell’attività di indagine”. Comprese le informazioni che “professionisti e imprenditori” postano su internet, mostrando luoghi di vacanza o ristoranti stellati: indizi sul reale tenore di vita che potrebbero essere usati nei confronti di chi intende aderire al concordato preventivo biennale e più in generale per le analisi del rischio fiscale. Cioè per individuare i probabili evasori e selezionare quelli da sottoporre a controlli o invitare “amichevolmente” a mettersi in regola.
Al netto delle tensioni in maggioranza, con la Lega pronta a evocare la “persecuzione orwelliana”, è evidente il nervosismo per la mossa dell’autorità presieduta da Pasquale Stanzione, che frena i passi avanti verso uno sfruttamento su larga scala del patrimonio informativo in mano al fisco. I precedenti del resto sono pessimi. Con la legge di Bilancio per il 2020 il governo Conte ha inserito la lotta all’evasione tra gli obiettivi di rilevante interesse pubblico che giustificano il trattamento dei dati personali e la limitazione dei diritti degli interessati, ma solo nel 2022 – dopo tre anni di faticoso tira e molla – il Garante ha consentito alle Entrate di utilizzare i contenuti dell’Anagrafe dei conti correnti e incrociarli con le dichiarazioni dei redditi e i dati patrimoniali.
Secondo gli addetti ai lavori è indispensabile che quel risultato sia ampliato al più presto a tutte le altre banche dati: lo impongono gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza in termini di riduzione del tax gap, da raggiungere anche attraverso “l’applicazione di strumenti di data analysis avanzati” tra cui intelligenza artificiale, machine learning e text mining. Il governo Meloni finora non si è discostato da quella linea, confermata in tutti gli atti di indirizzo del ministro Giancarlo Giorgetti, nella Nota di aggiornamento al Def e nella delega fiscale. Di qui l’articolo 2 del decreto sull’accertamento, che traduce in pratica l’intenzione di razionalizzare e rafforzare le varie norme in materia con l’obiettivo dichiarato di rendere più efficienti i controlli riducendo i costi e anche “l’impatto su cittadini e imprese in termini di oneri amministrativi”
Ma nel passaggio dallo schema esaminato in via preliminare a novembre a quello definitivo approvato la settimana scorsa molti passaggi sono stati depotenziati, sempre su richiesta dell’autorità per la protezione dei dati. Dal comma che consentiva all’Agenzia delle entrate di sfruttare tutte le basi dati di cui dispone, comprese quelle relative alle fatture elettroniche, “anche tramite interconnessione tra loro e con quelle di archivi e registri pubblici”, è stato tolto il riferimento alle informazioni “pubblicamente disponibili”, cioè quelle caricate su internet e sui social dai diretti interessati. Una raccolta massiva di quei dati, sul modello di quel che avviene ormai da tre anni in Francia, era stata auspicata nella Relazione 2022 sull’evasione fiscale e contributiva. Alessandro Santoro, presidente della commissione di esperti che la scrive, spiega che “è una risorsa importante che può servire per individuare specifiche tipologie di evasione, come quella sulle case date in affitto. Niente da fare, perché secondo il Garante mancano i “necessari requisiti di affidabilità” e quelle informazioni sono state “raccolte per finalità diverse da quelle sottese al trattamento”. Google può utilizzarle, il fisco no.
L’altro freno è stato inserito al comma 4, che sempre per l’analisi del rischio consentiva di limitare i diritti degli interessati affidando a un semplice regolamento del Mef il compito di individuare le misure a loro tutela. Nell’ultima versione serve il parere del Garante, il che apre la strada a un nuovo rimpallo come quello andato in scena tra 2019 e 2022. E azzera i progressi fatti nel 2021, quando il Codice per la protezione dei dati personali è stato modificato per consentire alle amministrazioni di utilizzare i dati necessari per compiti di interesse pubblico senza coinvolgere l’authority. Ciliegina sulla torta: la Guardia di Finanza potrà sì usare i dati per scovare gli evasori, ma non utilizzando “tecniche avanzate”. La definizione, dice il garante, è troppo vaga. Ma solo le tecniche avanzate garantiscono una selezione mirata dei contribuenti a rischio.