Per migliorare la salute delle donne, serve un approccio femminista anche per la cura dei tumori. Non è più solo una rivendicazione delle attiviste, ma la tesi dello studio “Women, power and cancer” di Lancet. Pubblicato a fine settembre e passato quasi sotto silenzio, è un richiamo a livello globale: “Se tutte avessero un accesso ottimale alle cure”, scrive la rivista scientifica, “si potrebbero evitare ogni anno 800mila morti” nel mondo. Va ampliato lo sguardo: parlare di cura dei tumori delle donne obbliga a considerare i fattori sociali, economici e politici che pesano sulle spalle delle pazienti (e in modo diverso rispetto agli uomini). Anche in Italia, qualcosa si muove. L’Associazione di oncologia medica ha appena diffuso le prime raccomandazioni per l’oncologia di genere: perché, dopo anni in cui “ha prevalso una visione dove l’uomo è al centro”, ora “i servizi sanitari devono tenere conto del genere”. Per dare migliori risposte alle donne e non solo.
FONDAZIONE IL FATTO – SUPPORTIAMO LA DIAGNOSI PRECOCE DEL TUMORE AL SENO: DONA QUI
La ricerca – Per Lancet il problema è strutturale: “Il patriarcato domina la cura del cancro, la ricerca e la politica”, scrivono. “Chi occupa posizioni di potere decide quali sono le priorità, i finanziamenti e gli studi”. In Italia, solo dal 2018 c’è un osservatorio ministeriale per la medicina di genere. E negli ultimi cinque anni circa, dice Susanna Chiocca, direttrice dell’Unità “Viruses and Cancer” all’Istituto Europeo di Oncologia, si può parlare di attenzione al tema. “Ora in alcuni casi un requisito per ricevere fondi è considerare le differenze di sesso e genere. Ma ancora abbiamo un grosso gap. Fino a poco tempo fa, nei trial dei farmaci entravano soprattutto uomini. Perché? Le donne hanno una biologia più complicata o non possono farlo perché gravide. Poi è più facile che non possano assentarsi o spostarsi in autonomia. Quindi tanti farmaci sono stati approvati senza essere testati sul numero appropriato di donne”. E non può più bastare. “Finora ai tavoli di potere erano tutti uomini o quasi. E non c’era interesse a cambiare. Per questo servono più primari donne e va aumentato il numero di corsi specifici nelle scuole di medicina”. Cruciali sono gli investimenti, aggiunge Chiocca: “I fondi che riguardano tematiche sulla salute femminile sono meno. Ad esempio, ancora pochissimo viene fatto per la menopausa, che riguarda il 50% della popolazione”. A maggio scorso è stato Nature a denunciare che i finanziamenti per la ricerca sulla salute delle donne sono ancora una frazione rispetto a quelli disponibili per gli uomini. Oltre al fatto che le donne sono globalmente sotto-rappresentate nei clinical trials di oncologia e neurologia. Una conclusione simile a quella di Lancet: “È urgente”, si legge, “condurre ulteriori ricerche per comprendere meglio le cause del cancro nelle donne, compresi i fattori occupazionali e ambientali, alcuni dei quali sono stati indicati come potenziali rischi solo negli ultimi 5-10 anni”. A essere trascurate sono anche le conseguenze che può avere la malattia, in primis gli effetti sulla vita sessuale. “Il 70% dei pazienti uomini ne parla col dottore contro il 20 delle donne”, continua Chiocca. “Non lo fanno per tanti motivi, ma dobbiamo affrontarli”. È legato alla sessualità uno dei pregiudizi più diffusi nella prevenzione dei tumori: quello che riguarda il vaccino per l’HPV. “È un virus sessualmente trasmesso e impatta tutti i sessi. Invece all’inizio il vaccino è stato rivolto solo alle bambine e donne con un aumento ora dei tumori HPV – correlati negli uomini. Adesso si vaccinano anche i bambini e gli uomini, ma forse siamo partiti tardi”.
Le associazioni di donne – Dove risultati ci sono già stati, e proprio grazie alle donne, è sul fronte del tumore al seno. “Sugli screening e l’assistenza c’è una forte disparità fra le Regioni”, spiega la chirurga senologa del Policlinico Gemelli Alba Di Leone. Così a muoversi per prime sono state le associazioni di donne: cordoni di sostegno, dove anello fondamentale sono le ex pazienti. “Sono tante e si battono sui territori per far riaprire un ospedale o perché gli screening siano più ampi possibile”. Loro, dice Di Leone, hanno anche permesso un cambio nell’approccio alla malattia. “Abbiamo sempre saputo che una donna andava in menopausa per curare il tumore del seno, ma prima si pensava che dovesse accontentarsi di essere viva. Ora c’è più attenzione agli effetti collaterali delle terapie. E questo anche grazie all’ingresso delle donne nelle équipe”. Per la collega del Policlinico Daniela Terribile, chirurga senologa che dirige assieme al prof Riccardo Masetti l’unità operativa complessa e presidente di Komen, per una donna potersi rapportare con una dottoressa è un valore aggiunto: “La cura è uguale, ma una donna avrà una maggiore attenzione al corpo. C’è più confidenza. Come un uomo è più a suo agio con un urologo”. Terribile per tanti anni è stata l’unica: “Ero quella che si cambiava nello spogliatoio dei maschi perché non era previsto ci fossero donne. Avevo l’aggravante di essere femmina e dovevo dimostrare di essere ciclo-indipendente. Credevano che mi sarei disamorata della professione”. Così non è stato e ora rivendica l’importanza di avere chirurghe in sala, capaci di intuire il peso che portano le pazienti. “La donna ritiene quasi una colpa il fatto di essere malata e di non poter essere presente nella vita dei familiari. Se arriva tardi per la diagnosi, si scopre che a trattenerla non è stata solo la paura, come può essere per l’uomo. Piuttosto il fatto di doversi occupare del padre, della madre, del parente disabile”. E le diagnosi tardive, riprende Di Leone, sono trasversali. “Succede a manager come a casalinghe. Le istituzioni devono creare paracaduti sociali: ci si deve poter curare senza avere penalizzazioni sul lavoro, a casa, nello studio”.
Le cure – Serve un cambio di prospettiva “migliorare la salute di tutti. Considerando anche la comunità di persone Lgbtqi+”, spiega Rossana Berardi, consigliera AIOM che ha coordinato la stesura delle raccomandazioni, ordinaria di Oncologia e direttrice Clinica oncologica delle Marche. “Dobbiamo lavorare sulla differenza di presentazione della malattia e la risposta alle terapie”. Senza dimenticare la “necessità di sviluppare una cultura della salute” a partire dalle scuole. Lo osserva anche Lancet: “Le donne”, a prescindere da zona o risorse, “hanno maggiori probabilità di non avere le conoscenze e il potere di prendere decisioni informate contro il cancro”. E non solo: la prevenzione per le donne si concentra su tumori femminili e trascura quelli al polmone o al colon-retto, che sono la seconda e terza causa di morte. Vere e proprie mancanze del sistema, dovute anche al gender gap. “Solo il 20% dei direttori di strutture di oncologia è donna”, dice Berardi che è una di quelle poche dirigenti. “E la produzione scientifica è meno appannaggio delle ricercatrici”. E il tema della differenza di genere è evidente quando si parla di cure sperimentali, dove una minore inclusione può comportare un mancato accesso a cure migliori: “Gli studi dicono che le donne aderiscono meno a protocolli sperimentali: erano il 20%, sono il 35%. Il motivo? I protocolli sono accessibili in centri non vicini a casa. O richiedono un caregiver, ma spesso è proprio la donna il caregiver in famiglia”.
Le relazioni – La società è in evoluzione, ma non le risposte di chi comanda. “L’Italia”, dice la demografa Alessandra Minello, “è messa peggio di quasi tutti in Europa in quanto a donne che si occupano della cura” di casa e famiglia “perché ha standard alti e uomini molto poco collaborativi. E se manca la figura femminile, non ce n’è una maschile a sopperire o un sistema di servizi che compensa”. Servono studi di genere sulla popolazione anziana e malata: “Le donne hanno un’aspettativa di vita più lunga, ma si incrinerà perché hanno sempre più accesso al mercato del lavoro e comportamenti prima maschili come fumo e alcool”. Ed è cambiata la rete: “Prima avevamo grandi famiglie orizzontali capaci di sostegno tra generazioni. Ora sono di tipo verticale con donne dai duplici ruoli”. Che si trovano doppiamente colpite quando hanno bisogno di sostegno. “Uno studio sulle relazioni”, conclude Terribile, “dice che nei primi 5 anni dalla diagnosi di malattia il 25% degli uomini lascia la compagna. Se ad ammalarsi è l’uomo, capita nel 3% dei casi. La ragione? Dicono di aver paura della sofferenza della partner. Così per la donna la solitudine è maggiore: se ha una famiglia si appoggerà a quella, ma spesso non vuole essere un peso. E allora vengono con amiche o sorelle”.