Brutta bestia, i distinguo. Prendiamo l’ultimo dei trionfi annunciati dal governo: la strombazzata crescita del mercato del lavoro in un’economia praticamente immobile. Cosa dicono le analisi? Record dell’occupazione, ma crescono gli inattivi; aumentano i contratti stabili, ma non per le donne; disoccupazione ai minimi storici, ma i salari non recuperano l’inflazione. Insomma, c’è più gente al lavoro, ma i protagonisti di questo apparente boom sono prevalentemente maschi, in età avanzata (tradotto: che non sono andati in pensione per via di criteri più stringenti) e assai impoveriti, mentre una fetta crescente della popolazione è così disillusa da non cercare alcuna attività.
L’ulteriore brutta notizia è che non si tratta di una novità: al contrario, si inscrive nel quadro di un Paese stagnante e diseguale, in cui negli ultimi 20 anni, come quasi tutti sanno per esperienza personale o famigliare, la dinamica del lavoro è fatta di precarietà, frammentazione di impiego, stipendi da fame e condizioni impossibili per giovani e madri. C’è dunque assai poco da festeggiare, ma vale la pena fare un altro distinguo: proprio i giovani e le donne sono il cuore della Sacra Famiglia, nonché motore propulsore della spinta demografica cui tanto tiene il governo. Logica vorrebbe che l’esecutivo autoproclamatosi a fianco degli ultimi, incassata la vittoria di Pirro da esibire a media che spesso non fanno più lo sforzo di smontare la propaganda, riflettesse allora su queste condizioni: per sostenere famiglie, ragazzi e donne è necessario invertire la marcia. E radicalmente. Invece, dopo aver varato il 1º maggio scorso, in spregio alla storia nazionale, un “decreto lavoro” che liberalizza l’uso dei contratti a termine ed estende quello dei voucher rendendoli competitivi rispetto a una vera busta paga – forse non sanno che in Italia il 30% dei dipendenti privati guadagna all’anno meno di 12 mila euro lordi – adesso, in sordina, il governo si prepara ad aumentare l’incidenza del lavoro interinale e a togliere la protezione dalle cosiddette dimissioni in bianco (dopo 5 giorni di assenza ingiustificata, si considerano dimissioni volontarie). La ministra interessata, Elvira Calderone, sta infatti lavorando a un disegno di legge che ha quei due punti forti: sempre, naturalmente, con l’obiettivo di favorire l’occupazione.
È doveroso allora chiedersi di quale occupazione si tratti, e quanto questa strada sbatta vigorosamente contro la linea indicata all’articolo 3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Già oggi, questo caposaldo dei diritti costituzionali è calpestato nei fatti: in Italia 2,9 milioni di persone lavorano irregolarmente, occupate soprattutto nell’agricoltura, nelle costruzioni, nel commercio e nella ristorazione. Sono uomini e donne che non scelgono questa condizione, ma la subiscono. Così come sono vittime di stipendi sotto la soglia della sussistenza: non solo il nostro è l’unico Paese Ocse in cui i salari reali sono diminuiti dal 1990 a oggi, ma è anche quello in cui il lavoro povero si concentra sulle donne (occupate solo nel 55% dei casi, e nel 64% dei part time) e sui giovani. Perché, allora, perseverare su questa strada, con misure precarizzanti? Qual è l’obiettivo? Difficile dirsi. Ma è utile ricordare che una popolazione stremata, cui è stato tolto anche il sostegno del Reddito di cittadinanza, non potrà mai essere un soggetto compiutamente politico, capace di partecipare alla vita democratica. Così come prevederebbe la Costituzione.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità