L a zona vicina al lungotevere, attraversata da via Pisanelli (dove al numero 40 abitava la famiglia Matteotti), di notte non era illuminata, e sempre deserta.
Con la sicurezza dell’impunità, favorita dal buio, la squadra di assassini reclutata da Amerigo Dumini, al servizio di Mussolini e proveniente dal vicino hotel Dragoni, accompagnando la lussuosa Lancia presa in affitto – una splendida berlina nera, targata 55.12169 – percorse più volte, lentamente, le strade della zona. Gli uomini della banda – tre dei quali procedevano a piedi – controllavano le distanze, memorizzavano gli incroci, percorrevano spavaldamente e lentamente qualche tratto di strada, prendevano appunti, memorizzavano i luoghi e i numeri civici.
Non c’erano luci, e i passanti erano molto rari. L’uomo di guardia piazzato dal commissariato Flaminio davanti al portone della casa dei Matteotti (com’era d’uso per molti deputati) disse poi – imbarazzato ma forse sincero – di non essersi accorto di niente di strano. Non così disinformata si rivelò, nei primi interrogatori del giorno dopo – quello del rapimento e dell’omicidio – la portiera del numero 12 di una strada contigua, via Stanislao Mancini, che come ogni notte temeva i ladri. Testimoniò poi: “Notai che sulla strada vi era una macchina chiusa, verniciata scura; con i fanali spenti andava su e giù per un breve tratto. Notai ancora tre individui che andavano su e giù per la strada arrivando fino al lungotevere…”. La donna, preoccupata, riferì lo strano episodio a suo marito, che rientrava da un’osteria. L’uomo – erano ormai le undici di sera – annotò su un calendario la faccenda, e aggiunse per scrupolo il numero di targa della sontuosa “Lancia” che esplorava il lungotevere, destinata – come vedremo – a diventare il teatro sanguinoso del rapimento e dell’assassinio di Matteotti: 55.12169. La preparazione dell’agguato, da parte della banda al servizio di Mussolini, durò fino a mezzanotte. Poi, per parcheggiare la “Lancia” fino al mattino in un luogo discreto e sicuro, Dumini scelse, spavaldamente, il cortile di Palazzo Chigi (test. del carabiniere Giovanni Olivo).
Per l’impresa più importante della sua carriera di assassino di lusso, Amerigo Dumini aveva convocato a Roma un gruppo scelto di collaboratori: il più prestigioso, nell’ambiente, era Albino Volpi, che Mussolini aveva definito “pupillo di uno dei miei occhi” e che secondo il capo della polizia De Bono era “l’enfant gaté della federazione provinciale fascista e del fascio di Milano”; lo accompagnavano gli “arditi” milanesi Amleto Poveromo, Giuseppe Viola e Filippo Panzeri; al gruppo, considerata la mole e le difficoltà di guida della “Lancia” destinata al rapimento, all’ultimo momento era stato aggiunto l’industriale milanese Augusto Malacria, anch’egli collegato a Volpi e apprezzato per la sua esperienza al volante delle grandi auto di lusso. I processi e le indagini successive non riuscirono a dimostrare, in aggiunta, la presenza di Aldo Putato, fedelissimo di Dumini. Va rilevato che – di fronte ai rilievi di polizia e alle risultanze testimoniali – già nella prima fase delle indagini sulla morte di Matteotti, ma soprattutto nei processi svoltisi nel dopoguerra, tra i partecipanti al rapimento si svolse un penoso scaricabarile, con reciproche accuse di partecipazione attiva all’omicidio. I prescelti per l’agguato si erano incontrati alle ore 13 di quel martedì 10 giugno 1924 al ristorante “Il Buco” di via Sant’Ignazio, l’antica strada che a Roma collega piazza San Macuto e piazza del Collegio Romano, a pochi passi da largo Chigi. Poco dopo le 14, Malacria si sistemò al posto di guida, che un vetro separava dall’abitacolo. L’obiettivo era chiaro a tutti i partecipanti. Fu lo stesso Dumini a esplicitarlo in un “testamento segreto” affidato, anni dopo, al suo avvocato: “Necessario era nel modo più assoluto mettere il Matteotti nelle condizioni di non più parlare, di scomparire anzi per sempre. Non doversi ritrovare mai più né vivo né morto”.
L’auto nera si piazzò nei pressi del lungotevere. Era un pomeriggio di sole. Faceva caldo. Matteotti uscì di casa senza cappello e senza gilet sotto la giacca del vestito chiaro. Raccontò poi la moglie, la poetessa Velia Titta (si erano conosciuti, e avevano convissuto, nel 1912, si erano sposati nel 1916): “È uscito di casa alle 16:30. Era senza gilet e con dieci lire in tasca… aveva con sé una busta di carta bianchina intestata Camera dei deputati… io lo seguii con gli occhi dal pianerottolo fino alle scale, poi dalla finestra l’ho seguito finché lo potevo accompagnare con l’occhio…”. Il pomeriggio era caldo, il cielo limpidissimo. Probabilmente il deputato intendeva camminare sul lungofiume, che a partire da ponte Margherita era ombreggiato dai platani, per poi piegare verso Montecitorio attraverso Fontanella Borghese.
La scena che si svolse quel martedì 10 giugno 1924 quando Matteotti sbucò sul lungotevere deserto fu – come la descrissero i pochi testimoni e, più tardi, alcuni degli aggressori – di inaudita violenza. All’uomo che camminava veloce e distratto si fecero incontro due della banda, che gli intimarono di salire sulla Lancia nera, ferma a motore acceso all’incrocio con via degli Scialoia. Ha confessato uno dei rapitori, l’ex macellaio Amleto Poveromo:
“In tre lo circondarono: lui si accorse dell’agguato e fece un salto indietro. Ma in un attimo in tre gli furono addosso e gli sferrarono un colpo al basso ventre… La strada era deserta; c’erano solo due o tre ragazzini che giocavano e non badavano a quello che noi facevamo” (Fondo Matteotti, interrogatori). Rintracciati dalla polizia, i ragazzini così raccontarono la scena, due giorni dopo: “Gli saltarono addosso, quello si divincolò buttandone uno a terra, ma un altro vestito di grigio gli dette un pugno in faccia facendolo cadere”. I rapitori trascinarono di peso l’aggredito verso la macchina scura; lo tenevano a forza due per le gambe e due per la testa. Lui “si dibatteva e urlava aiuto” e allora uno dei banditi “gli assestò un altro pugno sulla pancia”. Poi la Lancia Lambda accelerò verso ponte Milvio, mentre l’autista, nel silenzio di quell’assolato pomeriggio, suonava freneticamente il clacson (senza altro scopo, confessò poi uno degli assassini, che coprire le urla di Giacomo Matteotti, il quale all’interno dell’abitacolo era ormai consapevole di combattere per la vita). L’aggredito agitava disperatamente le gambe. A un certo punto, spaccato il vetro posteriore con un calcio, riuscì a gettare fuori la sua tessera di deputato. Quando, due giorni dopo, fu sequestrata dalla magistratura, la lussuosa Lancia era in condizioni pietose: in frantumi il vetro separatorio dietro l’autista, a pezzi il lunotto posteriore, schegge di vetro dietro la spalliera del sedile anteriore, sangue ovunque: il disastro era così impressionante che – prima della restituzione, a pagamento e senza spiegazioni, della vettura all’autorimessa di via dei Crociferi – un pietoso tentativo di lavaggio e il taglio della tappezzeria non erano riusciti a occultare il disastro. Confessò per iscritto anni dopo uno degli assassini: “L’interno della macchina era letteralmente intriso di sangue” (Memoriale Dumini).
Nel corso dei processi e delle analisi condotte con scrupolo dagli anatomo-patologi, i periti arrivarono alla conclusione che “il Matteotti Giacomo, deputato”, era morto per “una ferita della regione toracica antero-laterale superiore sinistra, prodotta da arma da punta e da taglio”. (perizia Belluzzi-Massari). Un colpo di pugnale.
(7 – Continua)
PRIMA PUNTATA – Matteotti? È uscito per le sigarette
SECONDA PUNTATA – Matteotti, l’auto rivela i rapitori
TERZA PUNTATA – Le Camere “truffa” e il rompiscatole
QUARTA PUNTATA – Amerigo Dumini, il killer del Fascio