Archeologia della propaganda elettorale: dieci anni fa, 2014, i programmi per le Europee della destra oggi al governo oscillavano tra lo “scioglimento concordato dell’eurozona” e “l’indifferibile scelta di uscire dall’euro”; nel lustro successivo, si era passati alle “misure compensative per gli Stati svantaggiati dall’euro”, capofila l’Italia e una non meglio precisata “esigenza dell’alleanza tra sovranisti”. Altri cinque anni – eccoci ai giorni nostri – e di quella furia non restano che gli strali contro “l’ideologia green”: in mezzo la Brexit, con la sua capacità di divorare quattro premier conservatori in sei anni, lasciando i Tory in ginocchio e il Paese attorcigliato in emergenze e tensioni: non troppo sorprendente, insomma, che l’europeismo, almeno di facciata, sia adesso moneta corrente. Eppure, questa spinta di convenienza non chiarisce nulla degli scenari che si aprono col voto del prossimo 9 giugno: non aiuta cioè a comprendere che tipo di Unione stiamo costruendo e, soprattutto, quale sia possibile, nonché desiderabile, costruire.
Le ipotesi – racconta il libro Quale Europa (Donzelli, in libreria dal 29 marzo), prodotto dal Forum Disuguaglianze e Diversità – sono essenzialmente tre: c’è la Ue intergovernativa di Ursula von der Leyen che alle missioni verde e digitale, e alla svolta del Recovery Plan, ha accompagnato sudditanza ai monopoli, freno all’Unione sociale e il pronto ripristino di un Patto di stabilità che blocca lo sviluppo. C’è poi la Ue conservatrice-autoritaria, che al neoliberismo vuole affiancare nazionalismo e corporativismo, e nasconde dietro a parole come “identità” e “popolo” la costruzione di nemici e l’erosione di umanità. Infine, esiste una terza possibilità: quella di un’Europa che coltivi la giustizia sociale e ambientale; un’Unione di coesione e pace che allarghi – opportunità, spazi, diritti – al posto di restringere, restituendo centralità alla democrazia partecipativa. Questo terzo modello – lo stesso che Altiero Spinelli tratteggia nel manifesto di Ventotene, molto citato e quasi mai letto – è anche quello che restituisce valore all’idea di cittadinanza europea: non banale, se si pensa che un’indagine Eurostat dell’ottobre scorso rileva che meno della metà della popolazione del continente (il 48% degli intervistati), e appena il 34% degli italiani, ritiene “che la propria voce conti” in Ue. Sia chiaro: ambire a un cambiamento significa anche adeguare l’assetto istituzionale dell’Europa, a partire dalle modifiche ai Trattati, laddove paralizzano l’Unione, come visto in fin troppe occasioni. Prima di tutto, si tratta di eliminare l’unanimità necessaria per decidere in Consiglio su temi decisivi come fisco e protezione sociale; secondo, di dare più potere all’Europarlamento nel nominare i Commissari, per assecondare le effettive esigenze dell’Unione e ridurre la spartizione di cariche e di potere. Ma il libro mostra anche le molteplici mosse che possono essere realizzate subito, senza intervenire sui Trattati, intervenendo invece su temi che coinvolgono quotidianamente la vita di tutti: dalla ricerca e distribuzione di farmaci alla protezione sociale, dalle tutele e possibilità del digitale al ruolo della partecipazione. Per arrivare all’ipotesi di veri partiti europei in cui i candidati all’Europarlamento non sono più espressione di strategie nazionali, bensì della costruzione di un corpo democratico collettivo, mentre si rafforzano il ruolo del Comitato delle Regioni e del Comitato economico e sociale europeo, e si torna subito a modificare il nuovo, irragionevole Patto di stabilità. Il messaggio, insomma, è: niente alibi. Ci sono strade per costruire subito una Ue migliore, che agisca per la cittadinanza in nome della quale decide, e non per i governi che sospingono interessi ed egoismi. Ed è arrivato il tempo di percorrerle.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità