FIRMA LA PETIZIONE – Daniela Santanchè deve dimettersi
“Certo che ho letto di Visibilia e della truffa sulla cassa Covid, ma come altro si possono chiamare 2,7 milioni di aiuti pubblici a una società andata in crisi per tutt’altro?”. Fino ad agosto 2020 e per ben 22 anni Stefano Banzi è stato agente per il Lazio della società del biofood Ki Group Srl per la quale il 9 gennaio scorso il Tribunale fallimentare ha dichiarato la liquidazione giudiziale. Altre istanze pendono su Bioera e Ki Group Holding, ma sulla Srl guidata fino a due anni fa dalla senatrice di Fratelli d’Italia la Procura di Milano ha un fascicolo che è in stadio meno avanzato ma potrebbe raddoppiare l’accusa di bancarotta in capo alla ministra del Turismo. Per l’ex agente, e non solo lui, era una truffa anche il prestito Covid ricevuto nel 2021 da Invitalia attraverso il Fondo Patrimonio Pmi per risollevarsi dalla pandemia.
Come altri ex lavoratori, ha fatto causa alla società per avere almeno le indennità che gli spettavano dopo vent’anni di servizio, pari a circa 80 mila euro, e gli ultimi due anni di contributi Enasarco che non gli sono stati versati. All’ultima udienza, il 23 ottobre scorso, Ki Group non si è neppure presentata e da che è subentrato il curatore fallimentare, il futuro per lui e la sua famiglia si è fatto ancora più incerto. Restano però altre certezze: come si è passati da un “gioiello” del bio al suo fallimento? E i prestiti pubblici chiesti dalla ministra erano poi legittimi e motivati secondo legge?
Ai tempi d’oro, ricorda Banzi, dipendenti e agenti erano una trentina, poi scesi a 10, molti dei quali alle prese col mancato versamento del Tfr. Da solo, lui riusciva a portare 2,5 milioni di fatturato alla società che l’ex marito Canio Mazzaro aveva rilevato dai Buriani. La Santanché è arrivata dopo e ha messo il figlio, continuando a gestirla fino all’ultimo.
Di fronte allo stato di insolvenza, per un passivo di oltre 8,6 milioni di euro, lei si è sempre difesa sostenendo che in Ki Group non aveva ruoli operativi. A smentirla però ci sono filmati e messaggi whatsapp con la referente dei commerciali, Monica Lasagna. “Finché ci sono stato io – insiste Banzi – lei era presidente del cda e finché c’era un amministratore non presenziava direttamente alle riunioni con noi. Nelle ultime invece, al tempo del Covid, lei non solo era presente ma ci dava personalmente le direttive e ci spingeva a vendere. A noi però ci veniva da ridere: se non hai la merce perché non paghi i fornitori, cosa diavolo vendi?”. Ed ecco il punto delicato di tutta la faccenda, soprattutto alla luce della chiusura indagini sulla cassa integrazione di Visibilia Editore chiesta all’Inps per dipendenti che lavorano lo stesso che avvicina ora l’imputazione per truffa.
“In realtà la società aveva chiuso i rubinetti molto prima del Covid per i quali ha chiesto e ottenuto quegli aiuti pubblici. Era la seconda del settore e fatturava 59 milioni, improvvisamente nel giro di un anno e mezzo non arrivava a uno. Ma già 4-5 anni prima che andassi via io, arrivavano le raccomandate dei legali dei fornitori e dei clienti più importanti. Come nulla fosse, gli azionisti si dividevano 4 milioni di euro, la holding era diventata una spugna che veniva sistematicamente svuotata, restando una scatola vuota”. E dunque il Covid? “Non c’entra nulla. Lei ha chiesto aiuti ma il fatturato era calato perché non pagando i fornitori non ci mandavano la merce. A me capitava di avere ordini per 500 euro ma mandarne al cliente per 20 proprio perché in magazzino non c’era altro. La cosa ridicola è che quello sarebbe stato il momento più propizio per alzare il fatturato: pur di non fare la fila nella grande distribuzione, la gente andava a fare la spesa anche nei piccoli negozi bio dove non andava prima. Eravamo pieni di richieste, se solo avessimo avuto la merce. Ma io l’ho sentita con le mie orecchie dire che avrebbe chiesto gli aiuti pubblici perché l’azienda ne aveva bisogno. La verità? L’azienda aveva solo bisogno di una dirigenza che non la spolpasse per esigenze personali”. Anche l’ex agente ne avrebbe, ma quelle possono aspettare. “Col fallimento non so come andrà la mia causa e certamente il collasso della Ki Group ha messo tutta la mia famiglia in una situazione di grande disagio, avendo due figli e un mutuo. La liquidazione, che sarebbe poi un diritto che ho maturato lavorando, ci avrebbe permesso quantomeno di stare a galla più sereni. Ricominciare dal fondo a sessant’anni non è mica facile”. La ministra Santanché, che il partito vorrebbe spedire a Bruxelles per evitare l’imbarazzo di un ministro a processo, ne ha solo 62.
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