Nel giugno 2023 la Corte Suprema di Cassazione metteva la parola fine ad un contenzioso iniziato nel 2015, quando diverse associazioni ambientaliste chiesero l’annullamento di una delibera della Regione Toscana che, ad integrazione del Piano di indirizzo territoriale (Pit), prevedeva l’apertura di nuove attività estrattive, la riattivazione di cave dismesse e gli ampliamenti di attività estrattive esistenti all’interno del Parco naturale delle Alpi Apuane, in particolare nelle cosiddette “Aree contigue di cava (ACC)”.
Il ricorso è stato giudicato inammissibile dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Cassazione in quanto le Acc sono previste dalla legge regionale istitutiva del Parco e non si possono considerare area protetta: con grande equilibrismo si sono ricavate all’interno del Parco una serie di isole non sottoposte a tutela ambientale, la normativa statale non impone che le aree contigue siano esterne al perimetro del Parco e quindi tali aree possono essere considerate “interne” solo in senso meramente descrittivo e geografico, ma non anche giuridico.
Nelle varie sentenze inoltre si ribadisce che «la tutela dei valori naturalistici non può essere considerata un valore finale e assoluto», nonostante nel 2022 – quindi prima dell’ultimo verdetto – siano entrate in vigore le modifiche all’art. 9 della Costituzione (la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi) e all’art. 41 (l’iniziativa economica non può recare danno alla salute e all’ambiente).
All’atto della istituzione del Parco le aree estrattive erano una cinquantina, e avrebbero dovuto in parte andare in chiusura, come confermato dal piano delle attività estrattive redatto dall’Ente nel 2002, mai approvato per le forti pressioni di imprenditori e politici. Il Piano di indirizzo territoriale (Pit) avrebbe dovuto disciplinare le aree estrattive, portando a chiusura una trentina di cave che lavoravano in violazione delle leggi italiane (prevedendo il recupero lavorativo per il centinaio di occupati) e stabilendo che si potevano riaprire cave chiuse da soli dieci anni e dunque non naturalizzate; oggi prevede la riapertura di cave chiuse dal 1980 e la possibilità di ampliamento per quelle in essere, con il risultato che ad oggi nel Parco ci sono oltre 100 cave attive.
Il documentario canadese “Antropocene – L’epoca umana” del 2018 ha presentato al mondo intero, tra i 43 peggiori disastri ambientali planetari, proprio le Alpi Apuane; diverse testate giornalistiche nazionali ed estere hanno mostrato le condizioni di queste montagne letteralmente divorate. L’agenzia regionale per l’ambiente Arpat nel 2018 – ultimi dati disponibili online – ha controllato l’attività di 60 cave: di queste solo 18 sono risultate in regola, emettendo 38 comunicazioni di reato e 43 sanzioni amministrative.
In tante occasioni ne abbiamo parlato e non staremo qui a ripeterci, la situazione è sotto gli occhi di tutti; anzi, nemmeno questo, perché circa la metà delle attività di escavazione si effettua in galleria, e lo stesso Parco sostiene che “il limite delle Zps (Zone di protezione speciale) non può estendersi nel sottosuolo in maniera indefinita secondo una proiezione verticale, di tipo geodetico”.
Nei giorni scorsi la Regione Toscana ha intimato alle associazioni ambientaliste ricorrenti il pagamento delle spese processuali relative al procedimento di cui sopra, con tanto di minaccia di “procedure per il recupero coattivo del credito”; il ricorso vedeva costituiti in giudizio la Regione, il Mibact (che concerta il Pit con la Regione) e la Henraux, una delle più grandi ditte di escavazione che nel 2022 ha fatturato oltre 30 milioni di euro; con Henraux esiste un altro contenzioso che riguarda il Monte Altissimo, ma questa è un’altra storia.
La cifra da pagare è importante, per i bilanci della Regione sono una goccia nel mare ma per piccole associazioni che vivono di volontariato rappresentano un esborso economico pesante; sapevamo di avere di fronte un colosso politico ed economico, dovevamo forse rinunciare? Nella terra dove qualcuno disse che “l’obbedienza non è una virtù”, quella stessa terra che stanzia 10 milioni di euro per un impianto sciistico alla Doganaccia in piena crisi di cambiamento climatico, che investe 1 milione e 800mila euro per asfaltare una strada sul Pratomagno mentre lo candida al Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa, che con nostra grande preoccupazione si troverà a valutare i progetti delle decine e decine di torri eoliche sulle montagne aretine, nel Mugello, a Pitigliano in Maremma.
È la concretizzazione del concetto di estrattivismo, un modello economico diffuso nel mondo che porta ovunque gli stessi risultati: benefici economici a breve termine ma senza miglioramenti di vita significativi e duraturi per le popolazioni locali, entrando in contrasto e limitando altri ambiti di sviluppo economico, infliggendo gravi danni ambientali e sociali. Non a caso Carrara è uno dei comuni più indebitati d’Italia, la cui provincia vanta tristemente un tasso di disoccupazione altissimo rispetto alla media dell’Italia centrale, ma che ospita al contempo società dagli utili favolosi.
Il Piano integrato del parco, che dovrebbe prevedere una significativa riduzione della superficie complessiva destinata alle attività estrattive, sulle pagine web istituzionali non è ancora disponibile forse perché ampiamente criticato dal consorzio di imprese del marmo che lo ritiene penalizzante con il rischio di chiusura delle attività estrattive e spopolamento della montagna, come se lo spopolamento non si fosse propagato in questi decenni di grandi profitti industriali; oggi le grandi associazioni ne chiedono la rapida applicazione per limitare i danni, forse dimenticando che “chi sceglie il male minore dimentica troppo in fretta che sta scegliendo il male” (Hannah Arendt).
Per raccogliere la somma necessaria al pagamento delle spese processuali è stata avviata una raccolta fondi popolare, alla quale si può aderire andando sul sito sosapuane.org. Non si preoccupi la Regione, pagheremo, perché questa è la legge. Ma è giustizia?
*Mountain Wilderness Italia