“Unire i puntini” è quel famoso gioco enigmistico che consente di tracciare linee tra vari punti apparentemente incongrui per formare un disegno di senso compiuto. È anche il mettere insieme indizi e segnali per arrivare a una visione più complessiva (e complessa) della realtà. Così potrebbe capitarvi, con in mano un quotidiano, di tracciare piccole linee mentali tra le prime pagine dense di guerra, minacce di mobilitazioni, invio di truppe, spese militari, carri armati da acquistare al più presto, arsenali da riempire, e le pagine interne, lontane lontane, dove si dice che in Italia (ma anche in Europa, in misura minore) aumenta vertiginosamente la povertà. Per restare alle (brutte) metafore, si può dire che nelle prime pagine si chiedono a gran voce cannoni, e a pagina trenta, o anche più avanti, si registra sommessamente che manca il burro.
Puntuale come le cambiali, infatti, ecco il rapporto Istat che fotografa l’Italia del 2023, un disastro. Il 9,8 per cento degli italiani vive sotto o al limite della soglia di povertà, cioè fatica a procurarsi beni essenziali (era il 9,7 nel 2022, era il 6,9 nel 2014, dieci anni fa). Diventano più poveri anche gli occupati, l’8,2 per cento combatte con il frigo vuoto pur avendo un lavoro, precario, o malpagato, o ridotto in ore e diritti. Quasi un milione di famiglie (944.000) si collocano sotto la soglia di povertà pur avendo un lavoratore dipendente al loro interno, quei lavoratori che la leggenda italiana vuole più protetti e garantiti, una leggenda, appunto.
Si potrebbe continuare per ore, le statistiche sono fonte inesauribile di paragoni, confronti, misurazioni, ma naturalmente non è lì la verità. La verità si può trovare forse nelle facce, nelle vite, nelle storie di fatica quotidiana che fanno donne e uomini sottoposti a questa privazione costante e continua di bisogni e desideri, a questa ingiustizia. Se volete unire i puntini, potete farlo agevolmente: tracciate una linea dritta tra l’abolizione dell’unica misura a sostegno dei “poveri” – il reddito di cittadinanza abolito dal governo Meloni – e i dati sui nuovi poveri, quelli che per anni furono accusati e sbeffeggiati, insultati e derisi perché erano “fannulloni sul divano”. O, se volete un’altra linea dritta, tracciatela tra i poveracci che non possono riempire il frigorifero e gli extraprofitti delle banche (più 80 per cento nel 2023) che si dovevano tassare e poi non se n’è fatto niente, perché le banche hanno una lobby forte, e i poveri no.
Poi ci sono altri puntini da unire, apparentemente più lontani, quelli del vento di guerra che spira tutto intorno a noi. E se andate a vedere da vicino è una faccenda che intreccia geopolitica e finanza, geopolitica e economia, poteri forti e fortissimi, lobby danarose e miliardarie, apparati industriali, politici che di quegli apparati industriali sono solerti camerieri e servitori benemeriti. Chi vuole mandare truppe, comprare più armi, aumentare le spese militari – parlo dei politici, ma anche dell’informazione – è ascrivibile al sistema delle élite. L’Europa – parlandone da viva – che auspica (testuale) “un’economia di guerra” è a loro che pensa e si rivolge, non a quei numeri delle statistiche che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Perché la guerra è un affare di ricchi e ricchissimi che pagheranno i poveri. Qui, in Ucraina, in Russia e ovunque. Lo diceva Bertold Brecht, ed è passato quasi un secolo, e i puntini sono ancora tutti lì, praticamente uguali, vergognosamente uguali, bisognerebbe unirli.