“Fra leggi bavaglio, liti temerarie e interpretazioni estremiste della privacy, il diritto di cronaca e la libertà di stampa sono a rischio estinzione. Fare inchieste è sempre più faticoso e in futuro diventerà impossibile”. Alberto Nerazzini è un giornalista investigativo e documentarista tra i più apprezzati in Italia. Ha lavorato per Report e prima ancora per Santoro. Stasera alle 21:15 su La7 parte la sua nuova avventura: “100 minuti”, un programma d’inchiesta condotto e realizzato con Corrado Formigli, che andrà in onda ogni lunedì: “La prima puntata sarà dedicata alle mafie nella Capitale. Un racconto approfondito di oltre un’ora e mezza, con intercettazioni audio e video esclusive, materiale legittimamente ottenuto e pubblicabile. Per ora. Quando Corrado ha visto la puntata è rimasto a bocca aperta: ‘Sarà l’ultima volta che possiamo farlo, vero?’ Forse è così. Con le riforme a regime non sarebbe più possibile”.
Come sarà “100 minuti”?
Un format semplice e per questo innovativo per la tv italiana: un documentario lungo che approfondisce un singolo tema. Un solo ospite in studio – il primo sarà Nicola Gratteri – due giornalisti che lo intervistano, io e Corrado. Nessun dibattito, nessun litigio. Solo fatti. Il contrario dei talk.
Perché Roma?
Perché parlare di Roma è come parlare dell’Italia. Qui mafie italiane e straniere fanno affari insieme. Il riciclaggio è enorme. E c’è un intreccio fra criminalità ed eversione nera che riporta agli anni della strategia della tensione.
E la politica?
In alcuni casi le organizzazioni sono così potenti che non ne hanno più bisogno. Attraverso la finanza ripuliscono fiumi di soldi sporchi. Un fenomeno che anche la magistratura, sotto organico, forse sottovaluta.
Stretta sulle intercettazioni, legge Cartabia, presunzione d’innocenza, divieto di pubblicazione delle ordinanze, potrei andare avanti… Quanto incidono sul giornalismo investigativo?
Quello che sta accadendo in Italia è spaventoso. Purtroppo viene da lontano e ai tavoli a cui si discutevano alcune di queste leggi sono mancati gli organismi di rappresentanza dei giornalisti. Siamo stati distratti, come categoria, e ci siamo accorti troppo tardi del disastro.
È colpa anche dei giornalisti?
Beh, da un lato ci sono le pressioni esterne, ma dall’altro c’è l’autocensura, non meno determinante nello spiegare la scomparsa dell’inchiesta dai media italiani. A volte mi viene da sorridere quanto sento alcuni colleghi dire: ‘Non sono mai stato censurato’. Forse è perché non ce n’è mai stato bisogno.
In questi giorni si discute della proposta della Boschi per imporre la par condicio ai giornalisti.
È una cosa clamorosa, da regime dittatoriale. Il fatto che i politici vogliano imporre la presunta imparzialità dei giornalisti sotto elezioni è incompatibile con la democrazia. Dire che un giornalista non deve avere punti di vista è un’affermazione che travalica nell’ignoranza del ruolo delle professioni.
Cosa intende?
Fare il giornalista significa mettere in discussione il potere. Non a caso il potere si sceglie i giornalisti.
E l’imparzialità?
Un concetto mitologico. Chi fa un’inchiesta prende una posizione perché ha approfondito dei fatti. E questo trasmette a chi lo segue. Purtroppo, è vero, ci sono molti giornalisti che non hanno punti vista. In molti casi non ci sono nemmeno più giornalisti… Forse è questo che molti ministri e parlamentari vorrebbero: non avere nessuno che fa domande, confondere del tutto comunicazione e informazione.
È un po’ pessimista?
Al contrario, bisogna essere ottimisti per lanciare un programma del genere: crediamo che il pubblico, pur contaminato da anni di informazione senza più fatti, possa seguirci e sostenerci. La sfida è enorme. Mi rifaccio a I.F. Stone, un grande del giornalismo investigativo americano: ‘Se qualcosa va storto con il governo, una stampa libera lo scoprirà e lo sistemerà. Ma se qualcosa va storto con la stampa libera, il Paese andrà dritto all’inferno’.