Ci fu un tempo in cui La Stampa, nella Torino operaia, veniva chiamata la busiarda. Ieri, come allora, invano avresti cercato su quel giornale la parola “sciopero” nei pur ampi resoconti dedicati alla visita dell’ad di Stellantis, Carlos Tavares. Proprio non c’era. E pazienza se oggi a convocare lo sciopero dei metalmeccanici siano tutti i sindacati, compresi quelli di destra. Pazienza se aderiscono il sindaco, il presidente della Regione e perfino alcuni imprenditori dell’indotto del settore auto. Né di sciopero, né tanto meno di corteo sotto la Mole dà notizia il quotidiano cittadino.
Piace notarlo lo stesso giorno in cui il presidente di Stellantis, John Elkann, a proposito dei giornali di sua proprietà, scrive testualmente nella lettera agli azionisti Exor: “Non dobbiamo mai perdere un giornalismo indipendente che resti fedele ai lettori cui si rivolge e non agli interessi di chi li possiede”. Ci sarebbe da ridere se gli ottimi colleghi de La Stampa non vivessero lo stesso ricatto occupazionale che motiva la protesta dei lavoratori. Fioccano i dividendi per gli azionisti Exor. Tavares incassa uno stipendio centinaia di volte più alto di Vittorio Valletta, il manager che nel dopoguerra trasformò la Fiat in un monopolio privato. Il capo di Stellantis rimprovera il governo che tarda a stanziare gli incentivi per l’auto elettrica e lo minaccia nel caso concedesse spazio alla concorrenza: “Se accadrà, qualcuno sarà responsabile delle nostre decisioni impopolari”. Con una buona dose di faccia tosta, aggiunge: “Perché limitare la sovranità nazionale nell’industria dell’auto?”. Come se Stellantis non fosse a maggioranza francese. E come se la sede legale e fiscale di quella che fu la Fiat non fosse già stata trasferita all’estero da Marchionne, senza che in Italia nessun politico alzasse un sopracciglio.
Gianni Agnelli, l’Avvocato nonno di John Elkann, usava dire che “quel che va bene alla Fiat va bene all’Italia”. Non è mai stato vero, anche se in molti fingevano di credergli. Quando Cossiga lo nominò senatore a vita aveva da poco esportato all’estero una quota enorme del patrimonio di famiglia. Dopo la sconfitta operaia del 1980 l’utile pre-imposte della Fiat in percentuale sul fatturato netto era salito dall’1% al 10%. Profitti decuplicati. Romiti aveva assorbito l’Alfa Romeo pur di impedirne il passaggio a Ford. L’anno dopo venne licenziato un esperto di automobili come Vittorio Ghidella perché aveva proposto un’integrazione con Ford Europe. Gli Agnelli restavano padroni assoluti ma la Fiat, dissipati i profitti di un decennio d’oro, andava in perdita e iniziava il suo declino. Marchionne lo tamponerà, ma dopo la sua morte Elkann ha avviato il processo di finanziarizzazione che fa felici gli azionisti ma prevede la rinuncia a qualsiasi espansione industriale nel Paese a cui gli Agnelli dovevano tanto.
Ora almeno si gioca a carte scoperte. La produzione in Italia è crollata a 500 mila vetture l’anno e la promessa di raddoppiarla somiglia a un miraggio. Fa impressione il silenzio che circonda il continuo prolungamento della cassa integrazione, l’incertezza sul futuro delle fabbriche, lo stesso sciopero di oggi. La politica sembra ridotta all’impotenza intanto che a vacillare è l’intero sistema italiano delle grandi imprese – dall’acciaio all’automotive – senza cui la nostra economia si riduce a un insieme di piccole aziende che vivacchiano grazie al basso costo della manodopera e alla “pace fiscale”.
Il governo mena gran vanto dei dati Istat che segnalano, a margine del calo produttivo, un aumento dell’occupazione a tempo indeterminato. Senza aggiungere però che lo si deve alla diffusione del lavoro scandalosamente mal retribuito e privo di tutele, come dimostra anche l’innalzarsi della quota di popolazione che versa in povertà. È come se la destra che ci governa, dopo aver garantito agli imprenditori di non frapporre ostacoli alla loro “libertà di fare”, contemplasse anche la trasformazione della classe operaia in plebe assoggettata. Cresce una rabbia sorda, trattenuta solo dalla rassegnazione, per questo retrocedere umiliante della dignità del lavoro che sta cambiando i connotati della nostra società: da cittadini lavoratori a individui resi docili dal bisogno.
Le tre stragi di operai in meno di un anno, da Brandizzo a Firenze a Suviana, hanno coinvolto ditte in appalto che operavano su commissione di grosse aziende pubbliche e private. Un campione del made in Italy come Giorgio Armani non ha sentito il bisogno di dire una parola quando si è scoperto che le sue merci di lusso venivano prodotte (a sua insaputa, davvero?) da dipendenti sottopagati. Per questo è un segnale importante lo sciopero di oggi a Torino, che non è solo il palcoscenico di una imbarazzante dinasty familiare Agnelli-Elkann. Nella città dell’automobile c’è ancora chi può sfilare a testa alta.