Più sono alti in grado e più le sparano. Charles Michel, liberale, presidente del Consiglio europeo: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra”. Donald Tusk, suo predecessore, liberale nonché liberatore della Polonia dal fanatismo, quantomeno nella vulgata: “La guerra è reale, siamo in epoca prebellica”. Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri dell’Ucraina che, bruciando le tappe, cerca l’ingresso nell’Unione europea: “L’era della pace è finita”. Tu chiamale, se vuoi, farneticazioni. Oppure ricorda che l’attuale presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è l’ex ministro della Difesa tedesca: e se in quel ruolo è improbabile non avere rapporti ambigui con le imprese fornitrici, in quello presente la presidente non ha mai attivamente cercato un ruolo negoziale per la risoluzione dei conflitti alle porte del continente, siano esse i confini terrestri o le sponde del Mediterraneo.
Diventa così forse più facile capire l’ultima classifica dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (Sipri) circa la spesa per armamenti nel mondo: il 2023 è stato l’anno record per gli acquisti a livello globale, per un importo totale pari a 2.400 miliardi di dollari. E nella graduatoria dei Paesi che hanno comprato di più, il secondo posto – dopo gli Stati Uniti sceriffi del pianeta – va all’Europa nel suo insieme, che ha speso complessivamente 314 miliardi. Più della Cina. Insomma, se la Ue nasce proprio per mostrare che superare conflitti terribili è sempre possibile, e spesso proprio con la creazione di strutture sovranazionali, quella missione originaria è stata manifestamente erosa dall’attuale classe dirigente, né si vede un cambio di rotta all’orizzonte: tanto che, nel momento in cui il nuovo Patto di Stabilità si accinge a stringere un cappio intorno alla spesa sociale, la Commissione propone come unico debito comune quello per la Difesa. La tardiva riscoperta di Keynes votata unicamente al riarmo: uno smarrimento drammatico, a cui si spera che le elezioni europee dell’8 e 9 giugno prossimo possano riparare fornendo una bussola con l’elezione di deputati consapevoli della posta in gioco.
Questo tradimento dello spirito fondativo è d’altronde profondo e innerva molti aspetti della vita europea: il libro Quale Europa (Donzelli), prodotto dal Forum Diversità e Disuguaglianze, segnala con preoccupazione il cambiamento delle università, nate nel Vecchio continente per favorire il libero scambio di idee e oggi quantomai lontane dall’obiettivo di produrre scienza aperta. La prassi è diventata infatti secretare le proprie scoperte finché non siano coperte da brevetto, in una tensione verso rendite monopolistiche o al servizio del dominio militare, tragicamente aggravata dal legame tra intelligenza artificiale e usi bellici. A Gaza, o in quel che ne rimane, l’esercito israeliano da mesi sceglie i bersagli da uccidere usando Lavander, un sistema basato sull’intelligenza artificiale, senza alcuna revisione umana, con l’assegnazione di un rango alle vittime predestinate che porta con sé un carico di errori e vittime “collaterali” accettabili, come se non si trattasse di vite umane. E un ruolo cruciale giocano in tutti i terreni di conflitto la rete di satelliti Starlink di Musk nonché i droni armati e automatizzati, prodotti anche dal campione nazionale Leonardo. Sono questi peraltro esempi delle tecnologie dual use contro cui protestano negli atenei molti studenti italiani, chiedendo un confronto: al posto dell’ascolto, però, ricevono biasimo e manganellate. La condivisione delle conoscenze e lo sforzo del dialogo sono i pilastri della convivenza pacifica e fruttuosa, nelle singole istituzioni e nel condominio europeo. Il tempo ora è finito: chi si candida alle prossime elezioni europee dovrà rispondere dell’idea di Europa che porta avanti, consapevole che il giudizio sarà severissimo.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità