L’Eurocrisi

Spread, quando Draghi negò lo scudo chiesto da Monti&C.

La versione di Mario - Nel suo libro l’ex premier critica il ruolo di Mr. Bce: “Deficit e tassi, scelte fatte per compiacere Berlino”

6 Maggio 2024

Roma, sera del 21 giugno 2012, sede della Banca d’Italia. Il premier Mario Monti e il viceministro dell’Economia Vittorio Grilli incontrano il governatore Ignazio Visco per discutere un piano riservato in vista del decisivo Consiglio europeo della settimana successiva. La situazione è drammatica. A sei mesi dalla caduta di Berlusconi, la crisi finanziaria non si placa nonostante la manovra “Salva Italia” di dicembre 2011. A Palazzo Koch c’è anche il presidente della Bce Mario Draghi: l’idea del governo italiano è che, oltre una certa soglia, la banca centrale intervenga sul mercato dei titoli di Stato per ridurre gli spread impazziti: quel giorno il differenziale di rendimento tra i Btp italiani e i bund tedeschi tocca i 417 punti. Draghi, però, gela i presenti: è “molto negativo”, la proposta “non può funzionare”. Insomma, non avrà il suo appoggio.

Non è un retroscena di qualche blog complottista, a svelare l’episodio inedito è lo stesso Monti in un passaggio di Demagonia, dove porta la politica delle illusioni (Solferino), in uscita domani. È un fatto noto che negli ultimi anni il professore bocconiano si è dato l’infausto compito di rivendicare di essere lui il vero Super Mario che ha salvato l’Italia, ma è la prima volta che mette in fila i fatti con tanto di retroscena.

Un mese dopo il No rifilato a Monti e soci, Draghi a Londra pronuncia il famoso “faremo qualsiasi cosa serva”, whatever it takes, “per salvare l’euro”, che ha messo fine alla speculazione sul debito italiano salvando la moneta unica. Una vulgata che Monti disconosce, affidando all’ex Bce il ruolo di esecutore, a volte riottoso, di decisioni politiche. Nei due capitoli dedicati alla vicenda, il nome di Draghi ricorre 36 volte in 50 pagine.

Nel 2011 la crisi dell’euro è al suo apice. Il terremoto dei subprime negli Usa ha messo fine alla stagione del denaro facile in Eurozona, colpendo prima Grecia e Irlanda, poi Portogallo e Spagna. La svolta avviene nell’autunno del 2010, quando Sarkozy e Merkel chiariscono, dalla spiaggia di Deauville, che gli Stati Ue possono fallire coinvolgendo il settore privato. L’annuncio scatena un deflusso di capitali dai Paesi periferici che nel decennio post euro avevano accumulato pesanti deficit con l’estero che il mercato non voleva più finanziare: l’Italia viene colpita a maggio 2011, quando la sua economia ha un saldo fra crediti e debiti con l’estero negativo per 355 miliardi (oggi è positivo per 120). Il 9 novembre, dopo mesi di passione, Napolitano convoca Monti a Roma: lo spread sfiora i 574 punti.

La cura lacrime e sangue varata un mese dopo fu venduta come una misura inevitabile per arginare il debito pubblico. Monti lo fa tutt’ora. Nel libro parla del debito in chiave moralistica, un’ingiustizia intergenerazionale. In realtà la cura era il classico riallineamento dei conti con l’estero comprimendo i salari, come ammise lui stesso nel 2013 alla Cnn (“Stiamo in effetti distruggendo la domanda interna…”).

Come noto, la cura ha fatto esplodere il rapporto debito/Pil a causa del crollo del secondo. Monti dà la colpa non alla ricetta, l’austerità – di cui pure disconosce la paternità, addossandola a Berlusconi – ma alla dose eccessiva somministrata, dovuta alla decisione imposta da Draghi di anticipare di un anno, al 2013, il pareggio di bilancio previsto per tutti i Paesi dell’euro nel 2014. Il diktat era contenuto nella famosa lettera al governo italiano del 5 agosto 2011 firmata dall’allora governatore di Bankitalia e dal presidente Bce Jean-Claude Trichet (di cui prenderà il posto a ottobre). Una richiesta insensata, accettata “per disperazione da Berlusconi”, che così, scrive Monti, firma la sua condanna a morte politica. La scelta fu subìta anche dai presidenti di Commissione e Consiglio Ue, José Barroso e Herman Van Rompuy, “probabilmente anche per non apparire dissonanti dalla Bce che così aveva deciso, benché al di fuori dei suoi poteri”. Nell’ottobre 2011, l’allora presidente della Bocconi ha l’occasione di esprimere ai due banchieri centrali le sue “riserve per quell’intervento inedito” a margine del passaggio di consegne a Francoforte. Trichet gli risponde che “si erano sentiti scoperti politicamente nel protrarre interventi di sostegno ai Paesi sotto attacco sui mercati senza un chiaro mandato a farlo”.

Secondo Monti, è stato il diktat di Draghi a causare gli effetti recessivi più pesanti, che lui tentò invece di evitare. Nel suo primo viaggio a Bruxelles da premier chiede infatti a Van Rompuy e Barroso “di liberare l’Italia da quell’impegno straordinario”. La risposta lo gela: “Dato che con la sua autorevolezza la Bce ha indicato quell’obiettivo per voi italiani, sarebbe disastroso tornare indietro…”. Monti spiega di non essersene lamentato in pubblico per non danneggiare l’Italia, ma di essere ben consapevole delle conseguenze. Cosa provi oggi sentendo il Draghi keynesiano del “debito buono” che critica le politiche “procicliche” (cioè recessive) di allora è intuibile dalle sue parole. “Qualcuno contrappone la linea del governo Draghi, sensibile alle esigenze della crescita, a quella del governo Monti cultore perverso dell’austerità. Il quale ha però avuto in sorte di somministrare agli italiani un pasto sgradevole che porta il suo nome, anche se cucinato da Draghi e Berlusconi.

L’ossessione per l’anticipo del pareggio di bilancio nasconde forse un ragionamento tecnico. Dopo Deauville, una certa dose di austerità era scontata, non però la scelta di farla con lo spread alle stelle e il settore bancario non più in grado di finanziarsi a tassi sostenibili. Diluirla nel tempo ne avrebbe ridotto l’impatto recessivo. L’Italia invece ha fatto due anni di stretta fiscale e monetaria, una roba da Paese emergente e anche illogica trovandosi all’interno dell’euro. In un documento del 2018, il Tesoro calcolò che quelle “frizioni finanziarie” abbiano spinto l’impatto recessivo del “Salva Italia” fino a 300 miliardi in meno di Pil.

Perché, dunque, una scelta così autodistruttiva? Monti parla di “apprendistato teutonico di Draghi”, arrivato a Francoforte bruciando il candidato dei tedeschi Axel Weber mentre l’Italia era travolta dalla crisi, cosa “che lo portava ad assecondare le richieste di Berlino anziché arginarle, al punto da proporre quel severo pacchetto di regole contabili poi noto come Fiscal Compact”, che viene discusso al Consiglio Ue di dicembre 2011, il primo per entrambi. Monti dice di essere rimasto colpito “dai continui interventi del neo presidente Bce che chiedeva aggiustamenti al testo in modo che risultasse più esplicito, più severo”.

Per lo stesso motivo, Draghi non appoggiò lo “scudo anti-spread” chiesto dall’Italia e anticipato dal premier al presidente Usa Barack Obama, preoccupato per la crisi dell’euro, per poi discuterlo al G20 di Los Cabos, in Messico, il 19 giugno 2012. Obama commette l’errore di presentarlo a Merkel come “the italian paper”, irrigidendo la Cancelliera. Tre giorni dopo Draghi lo boccia nella riunione in Bankitalia: “Non se la sentiva di fare alcun passo che potesse portare a un irrigidimento della Germania”.

Per quel passo serviva, insomma, la copertura politica, che arriverà solo al Consiglio Ue del 29 giugno, che l’ex premier dipinge come un suo trionfo, quando Italia e Spagna piegano la Merkel, con la sponda del neopresidente francese François Hollande, ottenendo che i Paesi in regola potessero accedere ai sostegni finanziari senza dover firmare un memorandum con la Troika. Un mese dopo arriverà ilwhatever it takes, che Monti non considera la svolta decisiva, che arriva solo a settembre, quando vengono resi noti i dettagli delle operazioni straordinarie di acquisto di titoli da parte della Bce: le “Omt” (poi mai utilizzate) che ricalcavano la proposta italiana bocciata tre mesi prima. È quello, suo dire, ad avviare la vera discesa dello spread: “Era lo scudo da noi tanto auspicato”. A conferma di questo ricorda che “tra luglio e agosto 2012 i rendimenti scesero pochissimo”, al punto che, quattro giorni dopo le parole di Draghi, la situazione era tale che discusse con Hollande della possibile uscita dell’Italia dall’euro (lo leggete di fianco).

Dopo 14 anni, una ricostruzione di quegli eventi resta ancora attuale. Draghi è l’unico dei protagonisti di quella stagione che ambisca ancora a un ruolo di primo piano in Europa a capo della Commissione o del Consiglio. Insomma, ad esserne uscito politicamente indenne. Che non vuol dire assolto.

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