Si è concluso la settimana scorso il vertice ministeriale del G7 su Clima, Energia e Ambiente. Hanno partecipato i Ministri dell’Ambiente e dell’Energia dei Paesi del gruppo: Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America, oltre all’Unione Europea come invitato permanente. La Viceministra all’Ambiente e Sicurezza Energetica, Vannia Gava, ha immediatamente salutato il testo finale come “accordo storico” ma le 35 pagine del comunicato finale affrontano molti temi, senza tuttavia aggiungere molto alle decisioni già prese in sede di COP28 pochi mesi fa. Si fa esplicito riferimento a quanto emerso a Dubai dal primo inventario globale sotto l’Accordo di Parigi (il cosiddetto “global stocktake”), citando puntualmente alcuni passaggi del testo, senza tuttavia portare nuove proposte sui fronti cruciali nella lotta al cambiamento climatico: riduzione delle emissioni climalteranti, investimenti in adattamento, finanza per il clima, compensazioni per perdite e danni.
Non si leggono, infatti, novità rilevanti o vincolanti in merito ai piani di riduzione delle emissioni, salvo un’accelerazione nella presentazione dei nuovi piani nazionali per il clima (NDC) sotto l’Accordo di Parigi, ora da presentare tra 9 e 12 mesi prima della COP30, ossia entro dicembre di quest’anno rispetto alla scadenza iniziale di primavera 2025. Accelerazione che potrebbe effettivamente rilanciare l’ambizione nel foro multilaterale, solo però se i Paesi G7 presentassero piani effettivamente innovativi e ambiziosi, cosa ad oggi poco prevedibile viste le imminenti elezioni europee (giugno 2024) e presidenziali negli Stati Uniti (novembre 2024). D’altro canto, un’accelerazione forse cercata dagli attuali delegati al vertice, nella prospettiva di presentare – pur frettolosamente – piani ancora rispondenti al Green Deal europeo ed all’Inflaction Reduction Act statunitense, prima di una probabile vittoria elettorale delle destre negazioniste su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Il passaggio sull’uscita dal carbone (pagina 5 del testo) è frutto di un compromesso, evidentemente sofferto, tra le diverse sensibilità dei Paesi del gruppo. Il testo, volendo lanciare un segnale politico forte in vista della prossima COP e ripartendo dall’esito dello stocktake del 2023, dice infatti che “i Paesi si impegnano a eliminare i livelli esistenti di generazione di elettricità da carbone non compensato da cattura e stoccaggio durante la prima metà dei prossimi anni ’30, oppure, secondo scadenze compatibili con l’obiettivo di Parigi di mantenere il riscaldamento globale entro +1,5°C entro la fine del secolo”.
Si parla, innanzitutto, di emissioni da carbone relative al solo settore elettrico, pur prevalente nell’uso di questo combustibile fossile; non secondario, si fa riferimento (come del resto nei testi di Dubai) alle emissioni non compensate, ossia relative a quei settori dove è tecnicamente possibile abbattere le emissioni a tecnologie attuali senza ri-assorbire CO2 tramite tecnologie di cattura e stoccaggio, considerate inevitabili per alcuni settori. Quello che però colpisce maggiormente del testo è la voluta ambiguità della data-obiettivo, “la seconda metà degli anni ‘30”.
Evidentemente alcuni Paesi non gradivano l’inserimento nel testo di scadenze puntuali, per non legarsi eccessivamente ad una deadline visto il contesto di grande incertezza energetica e geopolitica internazionale. Ambiguità che emerge con ancora maggiore chiarezza nel paragrafo successivo, nel quale si dice che tutto sommato la scadenza indicata potrebbe essere sostituita con una analoga, da identificare, purché si rimanga in linea con gli obiettivi di Parigi. Sebbene la formulazione abbia senso dal punto di vista politico, risulta averne poco in termini
normativi e, se vogliamo, del diritto internazionale, non legando di fatto i Paesi ad alcun vincolo temporale effettivo, neanche rimanendo – come qui necessario rimanere – nel campo dell’applicabilità per sola adesione politica dei partecipanti. Insomma, un phase-out molto vago nelle tempistiche, non universale e solo parzialmente rispondente a quanto richiesto ormai da anni e con insistenza dalla comunità scientifica.
Scarsi progressi anche sul fronte della finanza per il clima, che sarà al centro della prossima COP29 di Baku. Sebbene il testo del G7 sottolinei puntualmente – ed è la prima volta – che le necessità globali ammontano ormai a milioni di milioni di dollari (in termini di necessità di mitigazione, adattamento, perdite e danni) e che sia più che mai necessario rivedere il funzionamento delle Banche multilaterali di sviluppo, i sette Paesi non si spingono oltre quanto già stabilito a Dubai, ossia la necessità di ripartire dai 100 miliardi all’anno in finanza climatica come base per il nuovo obiettivo quantitativo globale (NCQG) che dovrà – o dovrebbe – essere stabilito a Baku, vista la grande incertezza che ancora regna sull’argomento, tanto da spingere alcuni Paesi a chiedere, proprio in questi giorni, un’accelerazione nell’analisi politica di bisogni e possibilità già dai negoziati intermedi di Bonn, che si terranno in Germania dal 3 al 13 giugno prossimi.
Contraddicendo le aspettative di molti, il ministeriale di Venaria Reale non ha portato novità neanche sulla finanza specifica per perdite e danni, peraltro – casualmente – nello stesso giorno in cui si teneva, in contemporanea ad Abu Dhabi, la prima riunione del nuovo Board del Fondo per perdite e danni istituito a COP29, dove l’Italia siede con un seggio “blindato” (essendo cioè rappresentata sia come membro
titolare che come membro supplente). Non sono arrivate nuove promesse di finanziamento del fondo rispetto a quanto raccolto a Baku pochi mesi fa ed in particolare gli Stati Uniti non hanno aggiunto niente ai 17,5 milioni di dollari promessi in quella sede; cifra irrisoria se confrontata alle responsabilità storiche del Paese ed alle promesse di altri, quali Italia, Francia e Germania con 100 milioni di dollari ciascuno.
“Se le aspettative rispetto a questo ministeriale G7 erano già abbastanza basse in termini di rilancio dell’ambizione per il clima, il comunicato finale dei Ministri ha confermato la posizione attendista di molti attori al tavolo in vista delle prossime elezioni europee e negli Stati Uniti. La vaga promessa di uscita dal carbone nella produzione di elettricità entro una data non meglio precisata del prossimo decennio, pur
rappresentando un segnale di vita politico, non basta da sola a salvare il vertice. La scienza ha indicato con chiarezza la strada da seguire, quella dell’uscita più rapida possibile dalle fonti fossili e i Paesi che possono permettersi questa accelerazione dovrebbero non tergiversare, bensì agire di conseguenza.” Questa la dichiarazione conclusiva di Serena Giacomin, Presidente di Italian Climate Network.