Si tiene domani a Roma la prima udienza del processo per diffamazione intentato dal ministro Francesco Lollobrigida nei confronti della filosofa Donatella Di Cesare, collaboratrice del nostro giornale. Lollobrigida si è rivolto al tribunale, proprio come la cognata premier Giorgia Meloni contro lo storico Luciano Canfora, perché i due intellettuali osano accostare il loro profilo politico-culturale al nazionalsocialismo tedesco. Un perseguitato vero, Salman Rushdie, ha ironizzato sull’infantilismo di questi potenti cognati capaci di fingere di avere la pelle delicata tanto da non sopportare un’accusa di nazismo. Proprio loro che fino a due anni fa non esitavano a ghermire gli avversari con linguaggio da sparvieri.
A rendere molto interessante la causa Lollobrigida versus Di Cesare è la sortita del ministro che l’ha originata in materia d’immigrazione, e cioè il richiamo al pericolo di “sostituzione etnica”. Se la Di Cesare, studiosa di Heidegger, non ebbe difficoltà a riscontrarvi un linguaggio “da Gaulaiter, da governatore neohitleriano”, singolare fu la giustificazione di Lollobrigida che ebbe l’ardire di appellarsi alla propria ignoranza, sostenendo di non aver mai saputo quali fossero gli ascendenti della teoria della “sostituzione etnica”. Legittimando così il dubbio che si tratti di un menzognero, più che di un ignaro, datosi che l’illustre cognata innumerevoli volte aveva allertato il popolo sul pericolo della “sostituzione etnica”, attribuendone l’intento, tanto per gradire, all’“usuraio Soros”.
Più preparato in storia si era dimostrato il nostro Lollobrigida quando inaugurò un sacrario dedicato al maresciallo Rodolfo Graziani, criminale di guerra, ministro autore del bando di reclutamento per la Repubblica di Salò, nonché presidente onorario del Msi. Dev’essere da maestri di tal fatta che, divenuto a sua volta ministro, Lollobrigida ha imparato a portare in tribunale i dissidenti.