Lo sanno nei peggiori bar di Caracas, ma non al Parlamento europeo. Nei locali di tutta Europa e di mezzo mondo, dovunque siano passate le donne le porte dei bagni son piene di scritte declinate in tutte le lingue possibili: “No è no”, “Solo sì è sì”. Una manciata di parole, sufficienti per tracciare la linea tra volontà e costrizione, nonché per identificare ciò che bisogna avere in mente prima di esprimersi sullo stupro: senza l’esplicito consenso della donna, il rapporto sessuale è violenza. Anche se ha bevuto troppo, anche se sorride nel sottrarsi, anche se decide all’ultimo. Facile, ovvio, già codificato: il principio del consenso esplicito è fissato inequivocabilmente dalla Convenzione di Istanbul (2011), firmata da tutti i Paesi aderenti alla Ue.
Eppure, a fine aprile l’Europarlamento ha votato la prima direttiva per “combattere efficacemente la violenza contro le donne e la violenza domestica in tutta l’Unione”. Senza includere lo stupro. La motivazione, addotta dai Paesi contrari è che si tratta di un reato che secondo i Trattati viene punito in base ai codici nazionali, quindi non andava incluso. Surreale cortocircuito, per una legislazione contro la violenza. E difficile da comprendere. Tanto più alla luce dei dati che l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), costituito in seno alla Ue proprio per promuovere la gender equality, pubblica dal 2013. Li ricostruisce con puntualità il volume Quale Europa (Donzelli), prodotto dal Forum Disuguaglianze Diversità, mettendo l’accento sulla differenza bruciante tra i concetti di uguaglianza giuridica tra sessi, dietro alla quale ancora spesso ci si nasconde, e uguaglianza sostanziale: la prima implica il riconoscimento della pari dignità di fronte alla legge, mentre la seconda implica la responsabilità delle istituzioni nel rimuovere gli ostacoli economici, sociali e culturali che impediscono il pieno sviluppo e l’effettiva partecipazione di tutti e di ciascuna. La differenza è notevole e indica il percorso da compiere.
Tanto che il polacco Robert Biedroń, presidente della Commissione Ue per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere, ha quantificato quanto siamo distanti dal traguardo: a questo ritmo di mezzi passi avanti e mezzi passi indietro, 300 anni. I numeri di Eige in questo decennio segnano infatti progressi in certe aree e peggioramenti in altre. Ma, per tornare alla direttiva contro la violenza, una costante c’è: aumentano ovunque i femminicidi e la violenza sulle donne. In tutte le sue forme: violenza domestica, psicologica e socio economica, minacce e odio online fino, naturalmente, a molestie sessuali e stupri. E se saperlo non è sufficiente per indignarsi al punto da voler cambiare tutto, la solita cornice economicista della Ue ha stimato persino il costo di questa violenza: 290 miliardi all’anno, di cui il 67% spesi per la giustizia penale, il 14% per servizi sanitari, il 12% per previdenza sociale, il 4% per costi personali, il 2% per la giustizia civile e solo l’1% per i servizi specializzati. Quei 300 anni, però, non sono obbligati: si può, e si deve, accelerare. Come? Tra gli europarlamentari italiani soltanto Pd e M5S, in opposizione ai loro gruppi di appartenenza, si sono espressi contro la direttiva. Servono più rappresentanti con coraggio, che vogliano affrontare il lungo percorso dell’uguaglianza sostanziale: elette ed eletti consapevoli del problema, delle loro responsabilità e anche del potere di modificare le cose. Ma servono anche elettrici ed elettori che, l’8 e il 9 giugno, si facciano carico della responsabilità di scegliere: l’alternativa esiste, bisogna prendersi il tempo di conoscerla e, soprattutto, di andare a votare. Perché indignarsi quando i giochi son fatti non aiuta, nessuna e nessuno di noi.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità