LEGGI – Corruzione in Liguria, Riesi e i dossier nel cassetto: “Spostano voti da sempre”
Nei pizzini scritti da Luigi Ilardo a Bernardo Provenzano erano semplicemente “i riesani C”. Al paese, invece, li chiamavano i “fratelli terribili”: sono Pino, Vincenzo e Franco Cammarata, i capi della famiglia mafiosa di Riesi, il piccolo centro nel cuore della Sicilia che negli ultimi giorni ha guadagnato notorietà a causa dell’inchiesta su Giovanni Toti. Il governatore della Liguria è accusato di corruzione, ma come spesso capita è indagando sui reati dei colletti bianchi che poi viene fuori l’ombra nera di Cosa nostra. Una mafia fluida, antica e moderna allo stesso tempo, che sa ancora parlare il siciliano anche se da decenni ha trasferito la propria ragione sociale a Genova, nel quartiere Certosa. È la zona del Ponte Morandi, nota come la “piccola Riesi” perché lì vengono tutti dal paese dei Cammarata. Pure la squadra di calcio si chiamava così: Certosa-Riesi. “È lì il quartier generale”, diceva Arturo Testa a Matteo Cozzani, capo di gabinetto di Toti, invitandolo a fare un giro nella zona: “Cosi – spiegava – vedi anche con mano certe impressioni in modo tale che capisci il perché della mia candidatura”. Alla fine Testa non sarà candidato: secondo i pm, alle elezioni regionali del 2020 ha indirizzato i voti della “piccola Riesi” su Stefano Anzalone, Lilli Lauro e Ilaria Cavo, tutti della lista Toti. Per questo motivo è accusato di corruzione elettorale con l’aggravante mafiosa, insieme al suo gemello Maurizio Testa e a Cozzani. Sono indagati anche il consigliere regionale Anzalone e quello comunale Umberto Lo Grasso, entrambi esponenti della lista di Toti.
Non è la prima volta che le scelte elettorali della “piccola Riesi” fanno discutere. Nel 2015 aveva fatto scalpore il voto massiccio del quartiere alle primarie del Pd, poi vinte da Raffaella Paita. Alle comunali del 2007, invece, era stata l’aspirante sindaca Marta Vincenzi a inviare una lettera all’associazione Amici di Riesi, che all’epoca era presieduta da Venanzio Maurici, sindacalista della Cgil, oggi pure lui indagato per corruzione elettorale aggravata. In quella missiva l’esponente dem esaltava la capacità dei “non genovesi” di “adattarsi e mescolarsi con un nuovo ambiente”, definendo “geniale” l’idea di creare la Amici di Riesi. Vincenzi probabilmente non poteva saperlo, ma tra i fondatori dell’associazione c’era anche Giacomo Maurici, l’uomo che gli investigatori indicano come lo storico capobastone del clan sotto la Lanterna. “Ai tempi non c’erano inchieste su infiltrazioni mafiose nel quartiere e anzi quando, anni dopo, si è iniziato a sapere ho denunciato”, si è giustificata l’ex sindaca nei giorni scorsi.
Di sicuro c’è solo che quelli di Riesi il pallino della politica l’hanno sempre avuto: lo storico capomafia Giuseppe Di Cristina era un grande elettore della Dc, amico del senatore Graziano Verzotto e fratello del sindaco del paese. Fu il primo grande nemico dei corleonesi di Totò Riina e per questo motivo venne ucciso nel 1978: il suo omicidio rappresenta il preludio della seconda guerra di mafia. Del resto don Peppe era un boss di primo piano: secondo Tommaso Buscetta fu coinvolto addirittura del piano per uccidere il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, e nell’omicidio del giornalista de L’Ora, Mauro De Mauro. Delitti eccellenti che dimostrano come la mafia di Riesi abbia sempre avuto legami di altissimo livello. Forse non sarà un caso se negli anni ’80 a Genova i riesini tentarono d’iscriversi “in blocco” al Psi, nello stesso periodo in cui in Sicilia Cosa nostra decise di dare un segnale alla Dc, spostando i suoi voti proprio sul partito di Bettino Craxi. Come ha documentato la Casa della Legalità, tra le richieste d’iscrizione al Partito Socialista c’era anche quella di Angelo Stuppia, che nel 1990 sarà giustiziato davanti all’ospedale di Rivarolo, a due passi dalla piccola Riesi: gli sparano mentre stava andando a trovare sua moglie, che aveva appena partorito un bimbo.
È anche per raccontare i retroscena di quell’omicidio che nel 1993 il boss Luigi Ilardo decide di diventare un infiltrato. Per anni ha vissuto una doppia vita: di giorno reggente del mandamento di Caltanissetta al posto di suo cugino, il potente Piddu Madonia, condannato per le stragi di Capaci e di via d’Amelio; di notte confidente del colonnello Michele Riccio con tanto di nome in codice: fonte Oriente. Il 31 ottobre del 1995 arrivò a portare i carabinieri fino al casolare di campagna dove si nascondeva Provenzano: il blitz, come è noto, non scattò mai e Ilardo venne poi ucciso, solo pochi giorni prima di formalizzare la sua collaborazione con la giustizia. Fece comunque in tempo a raccontare i segreti di Cosa nostra, anche quelli della sua costola genovese. Dei problemi creati dai Cammarata, il boss infiltrato scriveva spesso anche a Provenzano, che dei “fratelli terribili” non si fidava: li considerata troppo vicini a Leoluca Bagarella e a Giovanni Brusca, quindi legati all’ala militare che aveva fatto le stragi. Del resto era proprio a Riesi che la mafia si era spaccata e la colpa era dei Cammarata: alcuni boss espulsi dall’organizzazione avevano cominciato ad arruolare piccole bande di criminali, fondando la Stidda, cioè la stella, intesa come una costellazione di clan paralleli a quelli ufficiali. Era scoppiata una faida sanguinosa, che in poco tempo si era diffusa nel resto della Sicilia e anche nel Nord Italia. Il sangue aveva cominciato a scorrere anche a Genova, dove i siciliani erano arrivati già negli anni ’50: emigravano in massa per lavorare nelle fabbriche del boom economico. Venivano soprattutto dalla provincia di Caltanissetta, da Gela e ovviamente da Riesi. Come spesso capita, però, tra migliaia di persone perbene era arrivata anche qualche brutta faccia. È così che sotto la Lanterna sono sbarcati i Fiandaca, gli Emmanuello, i Rinzivillo, i Maurici e i Cammarata: gestivano le bische clandestine, il traffico di droga, l’usura e le estorsioni. Che in Liguria sia arrivata Cosa nostra la giustizia se ne accorge già nel 1985, quando il tribunale di Genova emette le prime condanne per associazione mafiosa, anticipando di due anni quelle del Maxiprocesso di Palermo. All’epoca il boss era Salvatore Fiandaca, poi per gli investigatori il capo diventerà Giacomo Maurici, detto zio Labico, cugino di Pino Cammarata: secondo il pentito Salvatore Riggio era stato “punciuto”, cioè affiliato come uomo d’onore, proprio a Genova nel 1980. È morto nel marzo del 2018, altrimenti nel giugno dello stesso anno sarebbe finito tra le persone arrestate in una maxi operazione antimafia della procura di Caltanissetta. Zio Labico era una vecchia conoscenza di Ilardo: il boss infiltrato ha raccontato che Maurici era un “amico fidato” di suo cugino Piddu Madonia. Insomma: non era uno di secondo piano.
Del resto il collaboratore Carmelo Arlotta ha spiegato come a Genova ci sia sempre stato un mandamento indipendente, seppur “con un’autonomia limitata per quanto riguarda le decisioni più importanti, come gli omicidi, per le quali interveniva il mandamento di Riesi”. Lo stesso pentito ha indicato tra gli esponenti di vertice del clan anche Venanzio Maurici, detto zì Venè, ex sindacalista della Cgil, descritto come un “cugino dei citati Maurici”. Secondo Arlotta, Zì Venè “pur avendo un ruolo non si esponeva. So che andava nei ristoranti e, poiché conosciuto, non pagava”. Fino a oggi incensurato, Maurici è stato un dirigente della Cgil: prima di andare in pensione è arrivato a guidare la Fillea di Genova, cioè il sindacato degli edili, e la Filcams, la sigla che rappresenta i lavoratori del commercio. Dopo essere finito sotto inchiesta, è stato sospeso dalla Cgil direttamente da Maurizio Landini. Per lui la gip di Genova Paola Faggioni ha ordinato l’obbligo di firma. Durante l’interrogatorio di garanzia Maurici si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti alla giudice. Poi è uscito dal tribunale e ha rilasciato alcune dichiarazioni ai giornalisti, tentando di respingere le accuse: “Smentisco di avere aiutato Toti, cosa per me infamante”. Ha anche negato la presunta parentela con Giacomo Maurici, confermando solo di essere cognato di Franco Cammarata, uno dei “fratelli terribili” di Riesi che oggi è detenuto nel carcere di Opera a Milano. Nel 2021 stava trascorrendo l’ora di socialità con Gregorio Bellocco, quando il boss della ‘ndrangheta aveva pronunciato frasi inquietanti nei confronti del pm Nino Di Matteo. “Anche al giudice Di Matteo lo ammazzano, gli hanno dato la sentenza”, diceva Bellocco, ascoltato dagli agenti della Polizia penitenziaria mentre chiacchierava con Cammarata. “Mio cognato c’ha l’ergastolo”, spiegava invece Venanzio Maurici, intercettato dagli investigatori. L’ex sindacalista è nato a Genova, ma resta comunque legatissimo a Riesi: sui social pubblica continuamente foto del paesino siciliano, alternandole a quelle di piatti tipici dell’isola, con tanto di didascalia in un incomprensibile dialetto nisseno. Nelle intercettazioni dell’inchiesta, invece, dimostra di conoscere bene la storia di Cosa nostra nel cuore della Sicilia: “Di Cristina è morto nel ’78… il fratello Antonio l’hanno ammazzato nell’82”, raccontava a Luigi Mamone, imprenditore d’origine calabrese. All’incontro era presente pure Franco Maurici, figlio di Giacomo, lo storico capobastone. Sarà per questo motivo se, interrogato da un suo dipendente circa l’identità dei suoi interlocutori, Mamone utilizzava poche dettagliate parole: “Sono mafiosi, gente del cazzo”.
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