REUTERS: “PUTIN, APERTO AL CESSATE IL FUOCO”. SCHOLZ: “PACE SOLO SE SI RITIRA”. ORBAN: “L’UE SI PREPARA ALLA GUERRA”. Per la seconda volta in una settimana il Cremlino manda segnali di distensione all’Occidente. Ma né l’Ucraina né gli alleati credono alle buone intenzioni dello Zar. Reuters cita 4 fonti russe: Putin avrebbe espresso “frustrazione” per il rifiuto dei negoziati espresso da Zelensky, Ue e Stati Uniti. Il 17 maggio, durante il viaggio in Cina per incontrare Xi Jin Ping, Putin aveva già lanciato la sua proposta: dialogo per un cessate il fuoco in Ucraina partendo dalla bozza dei negoziati di Istanbul, avviati a marzo del 2022, un mese dopo l’inizio del conflitto. In quel momento, l’accordo sarebbe stato vicino, secondo la ricostruzione di Foreign Affairs. Ma la volontà degli alleati di non dare tregua a Putin convinse Zelensky a bloccare ogni accordo, proseguendo con le ostilità. Due anni dopo, Putin lancia segnali di pace, ma l’Occidente sembra voler tirare dritto. “Questa guerra può finire soltanto quando la Russia capirà di dover ritirare le sue truppe”, ha risposto il cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Kiev mette in guardia dai falsi appelli del Cremlino. Secondo Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri, la Russia vuole dividere l’Occidente in vista del vertice di pace in Svizzera, il 15-16 giugno. Putin “non ha desiderio di porre fine alla sua aggressione contro l’Ucraina”, ha chiuso il discorso Kuleba. Viktor Orban, il presidente ungherese vicino al Cremlino, lancia l’allarme: Usa e Ue starebbero creando “l’atmosfera per un eventuale conflitto militare, che potremmo anche descrivere come una preparazione all’entrata in guerra dell’Europa”. Sul campo, un’altra linea rossa sarebbe stata superata: l’Ucraina avrebbe colpito in Crimea con missili a lungo raggio forniti dagli Stati Uniti, secondo il Wall Street Journal. Sul Fatto di domani vi racconteremo cosa sta accadendo in Ucraina, sul terreno e sul fronte diplomatico.
CORRUZONE IN LIGURIA, IL VERBALE DELL’INTERROGATORIO A GIOVANNI TOTI: “FAVORI A SPINELLI? NESSUNA RELAZIONE CON I FINANZIAMENTI, LUI CHIEDEVA SEMPRE AIUTO”. Un interrogatorio fiume durato 8 ore, quello di Giovanni Toti. Il governatore ligure ai domiciliari dal 7 maggio per corruzione, ieri ha risposto alle domande dei pubblici ministeri: 180 quesiti. Le sue risposte sono riassunte in un verbale di 27 pagine, ma la linea difensiva è già chiara: rifiutare ogni addebito e allontanare lo spettro delle dimissioni. “Ha chiarito il significato delle richieste di finanziamenti, che non erano collegate ad alcun tipo di favore e fatte in modo esplicito e diretto proprio nella convinzione di avere impostato i suoi interventi verso l’interesse pubblico”. Ovvero: finanziamenti regolari, provvedimenti nel solco dell’interesse pubblico. Nessu do ut des. Toti lo dice chiaro agli inquirenti, durante il faccia a faccia: “Dal mio punto di vista non c’era alcuna correlazione, Spinelli mi finanziava da lungo tempo. Lui è ‘uno che ci prova sempre’, tutte le volte ti ricorda se puoi fare qualche cosa per lui. Ripeto che non ho percepito alcuna correlazione”. È la risposta-chiave della strategia difensiva di Giovanni Toti. Il nesso tra i finanziamenti incassati da Aldo Spinelli e i provvedimenti riguardanti il porto sarebbe solo un abbaglio degli inquirenti. Nel corso dell’interrogatorio, i pubblici ministeri avrebbero ricordati a Toti alcuni stralci dei dialoghi intercettati con “sciò Aldo”. “Ci sentiamo la settimana prossima che c’ho, sai… non ti dimenticare di me“, fa il governatore. E Spinelli: “No appena c’è il Comitato che va in porto stai tranquillo all’indomani siamo… ti chiamo subito”. Al centro delle discussioni c’è il rinnovo trentennale della concessione al terminal Rinfuse del porto di Genova: un obiettivo fondamentale per l’imprenditore. Puntualmente la concessione arriva, come il bonifico per il comitato elettorale di Toti. Sul Fatto di domani, una nuova puntata dell’inchiesta sulla corruzione ligure.
CRONISTI IN QUESTURA, IL SINDACATO DEI GIORNALISTI: “IL VIMINALE NEGA DIRETTIVE, I FATTI MOSTRANO IL CONTRARIO”. MELONI, UN GOVERNO ALLERGICO AL DISSENSO. Il giorno dopo il fermo di tre cronisti, a Roma mentre tentavano di documentare il blitz di Ultima generazione, le polemiche non si placano. La Fnsi (Federazione nazionale della Stampa italiana) pubblica un comunicato per chiedere conto al ministro degli Interni Matteo Piantedosi. “Il Dipartimento della Pubblica Sicurezza afferma che ‘non è mai stata data una direttiva operativa che preveda l’identificazione di giornalisti e operatori dell’informazione in occasione di manifestazioni pubbliche – è scritto nella nota – Ma gli atti di questi ultimi mesi vanno in direzione ostinata e contraria”. Il sindacato dei giornalisti vuole capire se il comportamento delle forze dell’ordine sia il frutto di una direttiva giunta dall’alto. Dopo la solidarietà del Fatto Quotidiano, oggi il Comitato di redazione dell’Ansa ha espresso vicinanza ai tre cronisti. Il segretario di Sinistra italiana ha presentato un’interrogazione parlamentare, per capire se il governo intenda fare e luce ed eventualmente assumere provvedimenti nei confronti degli agenti. Anche Italia Viva, con Ivan Scalfarotto, ha annunciato un’interrogazione al governo. Del resto, gli eventi di ieri parlano chiaro: al centro della vicenda ci sono i reporter Angela Nittoli (videomaker collaboratrice del Fatto Quotidiano), Massimo Barsoum (fotografo del Corriere della Sera) e il videomaker freelance Roberto Di Matteo. I tre si stavano preparando a documentare il flashmob del movimento ambientalista Ultima generazione presso la sede del ministero del Lavoro, in via Veneto. Poco distanti, in via XX Settembre, sono stati fermati da agenti in borghese. Hanno mostrato documenti e tesserini dell’Ordine dei giornalisti, ma dopo aver atteso mezz’ora sono stati portati nel commissariato di Castro Pretorio a bordo di una volante. Poi sono stati rinchiusi per due ore in una “celletta” con la porta aperta. Una volta rilasciati, il blitz era già finito: nessuno lo ha potuto documentare. Sul Fatto di domani torneremo sulla vicenda: l’allergia al dissenso del governo Meloni non riguarda solo ambientalisti e giornalisti. Ad esempio: neppure chi contesta le opere pubbliche è gradito. Un emendamento della Lega al “pacchetto sicurezza” propone di innalzare fino a vent’anni di reclusione la pena per chi protesta in modo “minaccioso o violento”, contro le grandi infrastrutture.
LE ALTRE NOTIZIE CHE LEGGERETE
Gaza, la Corte internazionale di giustizia: “Israele si fermi a Rafah”. I giudici delle Nazioni Unite hanno ordinato a Israele di fermare le operazioni nella città del valico con l’Egitto, a Sud della Striscia, dove 1,5 milioni di sfollati hanno trovato rifugio. Il presidente della Corte, Nawaf Salam, ha definito “disastrosa” la situazione umanitaria nell’area. Dopo la presa di posizione dell’Aja, tuttavia, Tel Aviv ha effettuato alcuni raid con i caccia sul campo profughi di Rafah.
Condono edilizio, il consiglio dei ministri ha approvato il decreto “Salva Casa”. Via libera al colpo di spugna sulle difformità interne e mano libera ai cambi d’uso degli immobili. Un provvedimento fortemente voluto dal vicepremier leghista Matteo Salvini.
Ilaria Salis, il giudice rivela a processo il suo domicilio: paura per le ritorsioni. Il padre della maestra italiana detenuta in Ungheria lancia l’allarme per la sicurezza della figlia: “Dobbiamo fare qualcosa”, ha dichiarato Roberto Salis rivolgendosi – durante l’udienza – all’ambasciatore Manuel Jacoangeli, anche lui in aula. “L’indirizzo non dovrebbe essere rivelato, anzi protetto e non va inserito nel verbale”, ha aggiunto l’avvocato della difesa Gyorgy Magyar. Salis è sotto processo per una presunta aggressione ad attivisti di estrema destra. Oggi è arrivata in tribunale per la prima volta in taxi, senza catene, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari il 23 maggio.
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Francia, televisione pubblica: sciopero dei giornalisti contro la riforma di Macron. “Guerra a Netflix? No, controllo del governo”
di Luana De Micco
I giornalisti della radio-televisione pubblica in Francia sono in sciopero da ieri e almeno fino a domani mattina. Playlist di canzoni, senza neanche un notiziario, per due giorni interi anche su France Inter, la radio più ascoltata dai francesi, con più di sette milioni di ascoltatori ogni giorno. Protestano contro la riforma dell’audiovisivo che prevede la creazione, all’orizzonte 2026, di una “Bbc à la française”, come dicono qui, accorpando in un’unica entità Radio France e France Télévision, l’Ina (Istituto nazionale dell’audiovisivo) e (ancora in forse) France Médias Monde, che comprende RFI-Radio France International e France 24.