Eppur si muove. Fidatevi, noi lo sappiamo: lo abbiamo visto. Cento volte l’abbiamo visto: da Salina a Pordenone passando per Perugia, Montebelluna, Napoli, Grosseto, Rosarno. Nonostante l’imperdonabile silenzio della politica, nonostante una campagna elettorale che dimentica i temi, nonostante lo sfinente gioco sui nomi, il Paese ancora reagisce: si muove. In questi ultimi due mesi, donne e uomini di ogni età si sono presentati a un centinaio di incontri nei luoghi più belli e meno ovvi pur di sentire parlare di Europa, cioè del proprio futuro. Persone comuni, di ogni età, ancora ostinatamente convinte che politica e democrazia possano cambiare il mondo, benché avvilite dalla mancanza di informazioni su elezioni imminenti – quelle per il rinnovo del prossimo Parlamento Ue – e messinscena come test nazionali per dimostrare la forza (o la debolezza?) delle proprie ragioni.
Di ragioni ce ne sono in effetti moltissime, ma non sono quelle dei decimali o dei centesimi degli imminenti esiti elettorali: sono, invece, riassunte in Quale Europa(Donzelli), un piccolo volume che racconta temi concreti sui quali si possono ottenere cambiamenti reali. Ammesso di esserne consapevoli. Abbiamo aumentato la consapevolezza collettiva discutendo del libro, ma è deprimente che non siano stati i partiti a preoccuparsene: perché, mentre ci si affligge sull’astensione già stimata intorno al 50%, il primo modo per curarla sarebbe stato dare valore al voto che si chiede. Sarebbe stato spiegare che non si va ai seggi per un inverosimile derby nostrano, ma perché la salute degli italiani, mentre il Sistema sanitario nazionale si avvicina al collasso, dipende dalle decisioni che prenderà l’Europa sulla ricerca e sullo sviluppo di farmaci in vista della prossima pandemia. Gli scienziati hanno spiegato abbondantemente che un giorno ci sveglieremo e saremo resistenti agli antibiotici: un’infrastruttura pubblica che produca quello che serve ci consentirebbe di risparmiare sulle decine di miliardi di euro che finora abbiamo invece dato a Big Pharma. E ancora: sarebbe stato necessario spiegare che sarà il prossimo Parlamento Ue a decidere come verranno usati i nostri dati personali, se contribuiranno a creare reti di conoscenza necessarie a curare malattie rare o se alimenteranno esclusivamente i profitti dei colossi digitali. Si può continuare: avrebbero dovuto essere i partiti a spiegare che la qualità del proprio lavoro, l’adozione di reti di welfare e le condizioni salariali possono essere determinate da scelte europee. Così come le indicazioni e la programmazione sulla transizione ecologica, che non può cadere dall’alto sulle persone, ma deve considerare le specificità di territori, redditi, esigenze. Sarebbe stato infine soprattutto necessario spiegare che la visione angosciante della guerra che avanza, e di un continente che si arma fino ai denti sottraendo risorse ad altro e abdicando a qualsiasi ruolo negoziale, non è obbligata: dipende anche da scelte fatte a Bruxelles. Insomma: quello che avviene nel Parlamento europeo non è alieno e distante, come decenni di pessima stampa hanno aiutato a farci credere, ma riguarda invece sempre più la sfera più intima delle nostre vite e possibilità. Su tutte queste questioni cruciali, chi siederà nella prossima Eurocamera potrà dare un contributo essenziale, decidendo come votare su atti di indirizzo che incidono sull’esistenza di milioni di persone. Ecco perché a tutta la cittadinanza spetta il compito – anche quando è fatica – di superare l’inerzia dei partiti e di scegliere con grande attenzione i nomi da mettere sulla scheda. L’obiettivo è chiaro: democratizzare la democrazia. Sembra un gioco di parole, ma è invece la battaglia fondamentale per restituire un senso a una delle conquiste del nostro tempo: l’Unione europea.