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I nostri occhi su Gaza

L’iniziativa umanitaria - Polvere e macerie, bambini e sfollati. Rientrati da Gaza raccontano l’inferno uno psicologo e un’infermiera

14 Giugno 2024

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Leggi il commento di Gad Lerner

Leggi l’articolo di Fabio Scuto

“C’è un odore diverso dopo un’esplosione. E sai che non è cemento. Non è calce. È altro”. La sabbia assorbe lo sporco – dicono – così come il sangue, che, con il passare dei giorni, si fa nero. Ma sotto la terra in frantumi, gli edifici che crollano per la morte sganciata dall’alto, non ci sono solo le urla soffocate, le storie di padri e di figli, di fratelli e sorelle, di giovani coppie cancellate in un secondo. Sotto quei cumuli di macerie – i satelliti dell’Onu hanno accertato che oltre la metà degli edifici nella Striscia di Gaza è stato distrutto, dall’inizio dell’offensiva, dai bombardamenti israeliani – ci sono facce sporche di gesso e corpi flaccidi, o quel che ne resta: sono i tuoi vicini di casa, i tuoi compagni di scuola, tua moglie, tuo figlio, tuo nonno. Puoi anche coprirti la bocca con un panno, tentare di camminare più veloce, ma è un odore che come il ronzio dei droni non si placa. Notte e giorno. C’è sempre. Sbarri gli occhi. E ti chiedi dove sei. “Sono morto?”.

“Le esplosioni tutto intorno… rivedo quelle macchine fumanti…”. Martina Paesani, 47 anni, infermiera, è rientrata da qualche mese dalla sua ultima missione con Medici Senza Frontiere a Gaza. Era già stata in zone di guerra, prima in Siria e poi in Yemen, a trattare i feriti da mine antiuomo. Eppure quello che ha visto a Gaza è senza precedenti. “Migliaia di persone per strada, in ogni buco d’aria, con le taniche in mano in cerca di acqua e di ogni cosa possa essere mangiata o scambiata solo per sopravvivere un giorno di più”. Ogni guerra è diversa, spiega, ma qui sono saltate le regole: “Non suonano le sirene, non fai in tempo a raggiungere le safe-room, ti colpiscono ‘collateralmente’ nei tragitti che dovrebbero essere green light. A Gaza davvero nessun luogo è sicuro e tutti, compresi noi operatori umanitari, siamo diventati target potenziali e reali vittime. Ma la cosa che più mi ha colpito è stato l’impatto massivo sulla popolazione, su oltre due milioni di persone ammassate in 40 chilometri per nove. E i pazienti: in otto casi su dieci, bambini”.

“In ospedale ti trovi di fronte il fornaio, la maestra, il falegname. La cosiddetta ‘società civile’”, riprende Martina. “Famiglie intere stipate negli ascensori, nei corridoi, sul pavimento…”. Si illudevano che gli ospedali venissero risparmiati. “Prima del 7 ottobre le strutture attive erano 37, il giorno di Natale nove e dopo qualche giorno otto. Io ero tra Gaza City e Khan Younis, all’ospedale di Al Aqsa, dove la situazione oggi è di nuovo terribile. Avevamo 1.100 pazienti con 250 posti letto… I malati non hanno possibilità di cura, gli ospedali servono solo per i feriti. E le stesse strutture dove operiamo con Msf sono state evacuate 14 volte: quando succede, tutte le persone che hai di fronte sai che saranno ‘morti di seconda e terza intenzione’”. Perché senza accesso alle medicazioni e alle anestesie, “i feriti andranno incontro a setticemia, cancrena, morte. Arrivano con ustioni su metà del corpo, amputazioni… I feriti sono morti”.

Lo schema si ripete sempre uguale. L’Idf fa cadere volantini su un ospedale, intimando di evacuare perché la struttura è una base di Hamas. Carri armati e artiglieria demoliscono parti delle mura. I missili fanno saltare in aria le ambulanze. L’elettricità e l’acqua vengono tagliate. Muoiono i bambini prematuri nelle incubatrici e i malati gravi. Le forniture mediche sono bloccate (il valico di Rafah sul lato palestinese è chiuso da 40 giorni, con buona pace della Convenzione di Ginevra): niente più antibiotici, antidolorifici, barelle, stampelle, garze. I soldati israeliani fanno irruzione e costringono tutti a uscire. Per le strade. Ma le bombe, in alcune zone, hanno spazzato via anche quelle. E così centinaia di feriti si ritrovano a vagare in mezzo alla polvere, insieme a 1,7 milioni di sfollati, da un punto all’altro della Striscia, a seconda di come si muove il conflitto. Negli ultimi giorni gli attacchi sono tornati a farsi sentire forte nella regione centrale. Sabato scorso, l’Idf ha bombardato il campo profughi di Al Nuseirat, provocando almeno 270 morti. “Non abbiamo avuto nemmeno il tempo di seppellirli”, racconta il dottor Hazem Moloch, medico con Msf dal 2013, che vive proprio nel campo di Al Nuseirat. “Suoni di missili ed esplosioni… Tutti gridavano e scappavano in ogni direzione. Sembrava la fine del mondo. Ho visto il terrore sul volto di mio figlio… ‘Papà, la gente è stata fatta a pezzi!’, mi urlava. ‘Bambini, donne… perché?’”. L’attacco di sabato ha creato il caos soprattutto nell’ospedale di Al Aqsa. Karin Huster è lì responsabile medica per l’équipe di Msf. “Abbiamo fatto tutto il possibile per stabilizzare centinaia di pazienti con ferite di guerra, da trauma, eviscerazioni, fratture, ustioni. Non c’è nulla che giustifichi quello che sto vedendo. Niente. Fino a che punto dobbiamo arrivare prima di dire a Israele che tutto questo non è accettabile?”.

Il cessate il fuoco permanente resta la priorità. La crisi umanitaria provocata da 250 giorni di offensiva militare israeliana, con l’arrivo dell’estate e delle temperature sopra i 35 gradi, sta divenendo ancora più drammatica. Liquami e montagne di rifiuti ovunque, l’acqua del mare per lavarsi, le malattie infettive. E poi la fame. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha affermato che “oltre 50 mila bambini a Gaza necessitano di cure per malnutrizione acuta”. Il pane, spesso pure marcito, è per molti, quando si è fortunati, l’unica forma di alimentazione in un giorno. “È l’annullamento dell’essere umano”, dice dosando parole e pause Davide Musardo, psicologo che per Msf si occupa della salute mentale per tutto il Medio Oriente e che, prima del 7 ottobre, era stato già due volte nella Striscia per un progetto sulla gestione del dolore. È rientrato da Gaza pochissimi giorni fa ed è ancora in pieno stress post traumatico. “Gli incubi continuano. Ho l’immagine di questi bambini che gridano completamente bruciati… molti di loro senza più genitori. Ancora oggi mi chiedo come riuscire ad andare oltre. Per sette settimane ho lavorato tra Rafah e Khan Younis soprattutto sui bambini, con un team di quattro assistenti sociali, uno psicologo e quattro counselor. Ogni storia è a sé, ma i tratti sono comuni: depressione, trauma da perdita dei propri cari, esposizione costante al dolore, ansia, insonnia. Il domani non esiste. Aspettano solo di morire. Sono cinque anni che lavoro in Medio Oriente, ma non ho mai visto questo livello di de-umanizzazione. La salute mentale sarà la vera emergenza, una volta che si fermerà il fuoco”. E sarà prima di tutto un trauma collettivo generazionale. “Mi perseguita l’immagine – racconta Davide – dei bambini che vedevo dai finestrini dell’auto ogni giorno, sempre sullo stesso percorso. Bambini con la faccia da adulto. Chi raccoglieva l’acqua, chi ci bussava per chiedere soldi o sigarette da vendere o barattare. Dopo due mesi non bussavano più. Urlavano. Dai 13-14 anni della loro età erano regrediti, psicologicamente, a 4-5. Dicono loro di non pensare, per non soffrire. Noi, invece, offriamo uno spazio, che è prima di tutto ascolto, per sentirsi umani: è fondamentale”.

“Sai qual è il regalo che mi hanno fatto?”, riprende Martina, l’infermiera. “Mi sono portata a casa un senso di comunità che non ho visto altrove. La cura dell’altro. Il fratellino che accompagna la sorellina. Il vicino di casa che porta in braccio il bambino. Anche io sono stata curata, nelle mie paure. Quando sotto il suono silenziato dei droni h24 o con il rumore dei pick-up che scaricavano cadaveri i miei occhi si perdevano, non erano mai soli. Nonostante l’insulto, l’assedio, la violenza, noi scegliamo di fare la pace, ma loro, i palestinesi, la pace la fanno con i loro corpi”.

Jean Genet, nel suo Quattro ore a Chatila, scrisse: “Ho dovuto andare a Chatila per cogliere l’oscenità dell’amore e l’oscenità della morte. In ambedue i casi i corpi non hanno più niente da nascondere: posizioni, contorcimenti, gesti, segni, anche i silenzi appartengono all’uno o all’altro mondo”. Lasciamoli allora mangiare la terra. Non gli gli resta che quella.

Otto mesi di guerra nella Striscia di Gaza stanno causando morte e distruzione senza precedenti. Tra il 54% e il 66% di tutti gli edifici nella Striscia di Gaza erano stati distrutti o danneggiati già a metà febbraio. Secondo una ricerca della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite, il costo economico dei danni alle infrastrutture critiche nei primi quattro mesi è stimato a 18,5 miliardi di dollari. Esperti legali internazionali hanno affermato che Israele sta commettendo un “domicidio” – la distruzione di massa di case e condizioni di vita per rendere un territorio inabitabile – e un “ecocidio”. Le immagini satellitari mostrano che quasi la metà della copertura arborea e dei terreni agricoli della Striscia di Gaza sono stati distrutti, mentre i materiali pericolosi lasciati dalle munizioni israeliane rappresentano una minaccia a lungo termine per l’intero ecosistema.

La cosiddetta “dottrina Dahiya” di Israele, che prevede l’uso sproporzionato della forza sulle infrastrutture civili nei territori ostili a Israele per punire i suoi nemici, viene attualmente applicata a Gaza e, con minore intensità, nel sud del Libano. In sostanza, i civili vengono puniti per aver “permesso” ai combattenti armati di lanciare attacchi missilistici dai loro quartieri. Quindi, invece di “conquistare cuori e menti”, come le classiche tattiche di contro-insurrezione occidentali, la dottrina Dahiya mira a creare invece un ambiente civile ostile, che prenda di mira Israele, bombardando cuori e menti.

La tremenda crisi alimentare – con gli aiuti che entrano col contagocce nella Striscia – condanna i gazawi a una perenne fame. Avverte la Fao che più di un milione di palestinesi nella Striscia di Gaza dovranno affrontare carestia e morte entro la metà di luglio. I dati riportati nel rapporto mostrano che il 100% della popolazione della Striscia di Gaza, pari a 2,2 milioni di persone, si trova nella terza fase o superiore, nota come fase di “crisi” nella classificazione delle fasi di sicurezza alimentare integrata (IPC) dell’Onu.

Ci sono poi le epidemie. Le temperature alte durante la giornata in questa stagione sono un tormento, la ricerca dell’acqua è la prima emergenza ogni mattina. Le punture di zanzara e altri insetti sono solo un sintomo della crescente crisi ambientale.

Otto mesi di implacabili bombardamenti e assedi israeliani hanno quasi distrutto le infrastrutture, gli impianti di gestione dei rifiuti. Ciò ha lasciato resti umani sepolti per mesi sotto montagne di detriti, cumuli di rifiuti solidi non raccolti che si accumulano nelle strade dove gli straripamenti di liquami sono un evento normale. Secondo il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), la Striscia produceva già la “sbalorditiva” cifra di 1.700 tonnellate di rifiuti al giorno e aveva solo due discariche principali, una delle quali funzionava oltre la sua capacità. Dall’inizio della guerra, secondo l’UNDP, i bombardamenti israeliani hanno causato gravi danni alle infrastrutture, tra cui il targeting dei veicoli per la raccolta dei rifiuti, delle strutture e dei centri di trattamento dei rifiuti sanitari. Le analisi satellitari mostrano che ora ci sono più di 140 discariche di rifiuti in tutta la Striscia. Le acque reflue traboccando nelle strade si raccolgono nei grandi crateri creati dalle bombe israeliane, riempiendo i quartieri di paludi di liquame che generano cattivi odori, inquinamento e insetti dannosi. Secondo le Nazioni Unite, in tutta Gaza si trovano circa 37 milioni di tonnellate di detriti, contenenti i resti di quasi 10.000 persone, che richiederanno anni per essere rimossi.

Le ong ancora presenti nella Striscia che già in maggio hanno lanciato l’allarme: nei campi profughi era in corso un’epidemia di meningite ed epatite, minacciando una “catastrofe sanitaria”. Anche le malattie della pelle come la scabbia, il vaiolo e i pidocchi si stanno diffondendo rapidamente e sono aggravate dalla mancanza di acqua potabile pulita, soprattutto nei rifugi improvvisati sovraffollati. Ci sono poi le morti per malnutrizione, decine ormai i ragazzini che arrivano in condizioni disperate nei pochi presidi sanitari che possono far molto poco per loro. I morti per malnutrizione, nell’ultimo mese, sono decine e decine.

Il futuro prossimo di Gaza è fatto di malattie, epidemie, deficit cognitivo e di crescita per scarsa alimentazione per una popolazione che al 65% è sotto i 15 anni, stenti, carenze sanitarie. È una condanna a morte, lenta, ma una condanna a morte.

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