Chissà se capiranno. Chissà se sapranno ascoltare, se vorranno farlo. Chissà se le persone elette ma soprattutto chi, alla guida, sta già pianificando tattiche e strategie, avrà voglia di interpretare i messaggi arrivati dalle urne: significherebbe dare un senso al movimento democratico che, lo scorso weekend, ha portato centinaia di milioni di persone ai seggi per rinnovare il Parlamento europeo. Dettaglio non trascurabile: sarebbe, oltre che auspicabile, anche l’unica strada per mantenere vivo quell’impulso democratico, in evidente affanno. Ne è prova lo sconfortante dato sulla partecipazione: poco più della metà della cittadinanza europea, il 50,9%, ha ritenuto di votare. L’Italia, ancora una volta, fa peggio della media. Non è un dato inaspettato, e non c’entrano soltanto il meteo, l’estate, l’orario: un’indagine di Eurobarometro dell’ottobre scorso segnalava che il 43% dei nostri concittadini si sente “neutro” rispetto all’Europa, come se le decisioni prese a Bruxelles non impattassero quotidianamente sulla nostra vita.
E quando quest’indifferenza si trasforma in rassegnazione e astensione, le conseguenze iniziano a farsi preoccupanti sul concetto stesso di democrazia. Eppure, allargando lo sguardo appena oltre i confini italiani, chi a votare ci è andato ha consegnato un messaggio chiarissimo: il rifiuto del bellicismo. In Francia e in Germania escono clamorosamente sconfitti i leader che più di tutti hanno spinto il militarismo e il riarmo come unico collante dell’Unione. La stroncatura investe in primis il presidente francese Macron e il capo del governo tedesco Scholz, da mesi follemente impegnati a cercare di convincerci che la guerra è l’unico orizzonte possibile, ma non solo loro: i Verdi un tempo potenti vettori di cambiamento, trasfigurati nella sbornia guerrafondaia, sono stati travolti dalla miopia e dal disancoramento sociale delle loro scelte. Che l’ecologismo non possa esistere senza giustizia sociale doveva essere una lezione appresa dal fatale incartamento del Green Deal negli anni scorsi, nell’impossibilità di ignorare le persone su cui quella transizione impatta: lo ha capito, in Italia, l’Alleanza Verdi e Sinistra (Avs), il cui risultato sorprendente mostra non solo l’anelito antifascista che ancora attraversa il Paese ma anche che i diritti ambientali e sociali sono due facce dello stesso bisogno di giustizia. Quando questa richiesta di attenzione cade nel vuoto, elettrici ed elettori volgono lo sguardo da un’altra parte: ed ecco l’avanzata della marea nera, delle destre più xenofobe, autoritarie e retrive, degli slogan del secolo scorso.
In quest’ottica fa tremare i polsi il percorso che la Ue ha davanti a sé. Pochi sanno che il Consiglio europeo uscente lascia a quello nuovo un documento di indirizzo, la cosiddetta “Strategic agenda” del prossimo quinquennio. Cinque anni fa, in una delle quattro sezioni di quel testo si leggeva: “Costruire un’Europa climaticamente neutrale, verde, equa e sociale”, con un rimando all’attuazione del pilastro dei diritti sociali sia a livello centrale sia negli Stati membri. Oggi, il preambolo dell’agenda uscito dalla riunione informale dei Capi di Stato e governo a Grenada identifica ben altre priorità: sicurezza e difesa, resilienza e competitività, energia e migrazioni. A riprova che la destra aveva condizionato la linea ancora prima del voto.
Conservare l’ottimismo della volontà però è ancora possibile, se elette ed eletti ascolteranno il senso del voto. E se si evita la scappatoia delle “maggioranze precostituite”: la fluidità del Parlamento europeo consente lotte e risultati questione per questione. A noi il compito di restare vigili sui nostri rappresentanti a Bruxelles.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità