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“Se l’Agenzia europea per i medicinali (Ema) non avesse autorizzato Pradaxa, sono sicura che mia madre sarebbe ancora viva”, racconta Nathalie, un’infermiera di emergenza incontrata a Valence, vicino Lione, in Francia. Il suo racconto è atroce: “È successo tutto in un’ora, l’inferno nella stanza del pronto soccorso, le infermiere che si alternavano per svuotare le bacinelle piene di sangue, il panico negli occhi dei medici che non avevano modo di fermare l’emorragia di una paziente ottantenne”. Prima di spirare, le sue ultime parole: “Sto morendo dissanguata”. Era il 2012, l’inizio della battaglia di Nathalie contro il Pradaxa, un anticoagulante messo sul mercato europeo dal 2009, senza alcun antidoto. Poi si è scoperto che oltre 400 morti, in Europa e negli Usa, erano riconducibili allo stesso farmaco. Negli Usa la compagnia produttrice ha pagato 650 milioni di dollari alle vittime. Investigate Europe ha letto la lettera “d’intenti” inviata dalla compagnia tedesca Boehringer Ingelheim all’Ema, dove si chiedeva di semplificare lo studio clinico da “doppio cieco” (in cui per testare un nuovo farmaco si prendono due gruppi di pazienti: a uno va quello nuovo, all’altro un farmaco esistente o un placebo. Nessuno sa quale riceve) a “braccio singolo” (tutti i partecipanti ricevano solo il trattamento sperimentale). Ema accettò insieme ai relatori della sperimentazione, scelti dalla stessa compagnia.
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Oggi sappiamo che uno degli esperti selezionati era un cardiologo francese che, dopo aver espresso un parere positivo, è diventato consulente della stessa Boehringer. Sono passati 7 anni prima che la compagnia tedesca abbia immesso un antidoto sul mercato. E intanto Pradaxa ha continuato ad essere usato dai pazienti europei. Non è la sola storia di farmaci “pericolosi” o non ancora pronti a essere commercializzati, a cui Ema ha dato l’autorizzazione di ingresso nel mercato europeo. L’agenzia con sede ad Amsterdam – che l’Italia aveva cercato di portare a Milano dopo la Brexit – ha il compito di approvare la valutazione scientifica sui nuovi farmaci o di aggiornare quelli già nel mercato. Un potere enorme che Investigate Europe ha scoperto essere pieno di debolezze, buchi, conflitti d’interesse.
Il primo è la totale dipendenza di Ema dall’industria: nel 2022, l’86% delle entrate di Ema proveniva dalle aziende farmaceutiche. Negli Usa il 65%. Le aziende farmaceutiche pagano sia per gli studi clinici che per le procedure di autorizzazione. Prima non era così. Quando l’Ema è stata fondata nel 1995, solo il 20% del suo budget proveniva dall’industria, il resto era pagato dal bilancio comunitario. Quest’anno si prevede che oltre il 90% sarà pagato dall’industria. L’impresa versa intorno ai 450 mila euro per una nuova domanda e s’incarica di portare avanti gli studi clinici. Ema valuta se l’efficacia supera gli effetti collaterali. L’analisi di Investigate Europe e le testimonianze degli esperti, provano che sempre più spesso le procedure vengono accelerate in una corsa contro il tempo che va a scapito della sicurezza dei farmaci. Negli ultimi cinque anni sono stati approvati 51 farmaci tramite “l’approvazione condizionale” (l’azienda è tenuta a produrre durante la fase post-autorizzativa le prove di efficacia mancanti), più della metà del totale da quando la procedura è stata introdotta nel 2006. In tutto 198 farmaci sono stati approvati con altre procedure rapide. Di questi 173 sono ancora sul mercato.
Ema si difende sottolineando che queste procedure consentono di trattare malattie mortali per pazienti che “non hanno né scelta né tempo” e – aggiunge – un farmaco viene approvato solo se i benefici superano i rischi. Una teoria sostenuta con forza dall’ex direttore esecutivo di Ema, Guido Rasi: “L’approvazione condizionale è la via da seguire, con un rigoroso piano post-marketing (ha lo scopo di valutare il valore aggiunto di un farmaco, ndr) che deve essere realizzato dagli organi nazionali, con Ema”. Ma nella pratica, una volta che un farmaco viene immesso sul mercato, occorre molto tempo per fornire ulteriori prove. Se queste arrivano. Lo ha dimostrato la ricercatrice Courtney Davis, del King’s College di Londra: dopo 7 anni (dal 2013 al 2019) non erano state fornite le prove di ricerca aggiuntive richieste nella metà delle procedure accelerate. “Per 30 anni ci è stato detto che gli studi post-marketing avrebbero colmato le lacune – dice a IE – ma non è così. Non riceviamo queste prove”. Lo conferma Beate Wieseler, dell’agenzia tedesca responsabile della valutazione della sicurezza e dell’efficacia dei farmaci (Iqwig): “L’Ema approva i farmaci sempre più rapidamente e con sempre meno dati clinici disponibili, sta diventando molto complicato per noi valutare il loro reale beneficio rispetto a un farmaco esistente”. E quando l’agenzia tedesca domanda all’industria di portare più prove, la porta si chiude. Lo testimoniano le audizioni delle aziende farmaceutiche. La risposta è sempre la stessa. Il 6 novembre 2023, ad esempio, durante un audit per il Riociguat, un trattamento per l’ipertensione polmonare, la rappresentante della multinazionale Msd risponde alle autorità tedesche che la interrogano sulla scarsa qualità dello studio clinico sul farmaco: “Lo studio limitato è stato accettato da Ema e non ce ne saranno ulteriori”. “È uno scandalo!”, commenta Pierre Chirac, direttore della rivista francese Prescrire. “Equivale a mettere a rischio i pazienti, perché non si hanno prove sufficienti che il rapporto beneficio/rischio sia favorevole”. Ogni anno Prescire pubblica una lista di farmaci “da evitare”, perché i rischi superano i benefici, in presenza di alternative migliori. Nel ‘23 ne hanno contati 105.
Uno di questi è Ocaliva, un trattamento per la cirrosi biliare primaria, una malattia autoimmune del fegato. È stato approvato in via condizionata nel 2016. Quattro anni dopo, l’azienda statunitense Intercept Pharmaceuticals ha presentato lo studio clinico con risultati negativi, gravi effetti collaterali, alcuni dei quali mortali. L’Ema ha iniziato a esaminare i risultati nell’ottobre 2023 e non si è ancora espressa, ma il farmaco continua a circolare nell’Ue. “È un gioco. I produttori di farmaci vedono che possono farla franca se presentano prove scientifiche un po’ meno solide”, spiega Lourens Bloem dell’Università di Utrecht. Diversi studi sui farmaci antitumorali mostrano che circa la metà di quelli ammessi nel mercato europeo non porta a un aumento della longevità o a una migliore qualità della vita. “Nell’urgenza si può capire che ci siano pazienti pronti a tutto perché in fin di vita, ma non è accettabile che per decenni non si sappia se un farmaco sia o meno efficace”, tuona Courtney Davis.
*Investigate Europe