Il braccio tagliato dalla macchina che addenta. Il sangue mischiato ai pomodori appena raccolti. Lo schiavo ormai inservibile, abbandonato davanti a casa, nella civilissima Italia, provincia di Latina, capoluogo del caporalato, con il braccio amputato buttato nella cassetta della verdura, appoggiata accanto a lui, Satnam Singh, indiano: il braccio è roba sua, se lo tenga, se lo guardi a lungo, mentre muore dissanguato.
È il capitalismo in purezza, il capitalismo che per ipocrisia chiamiamo selvaggio, ma che in definitiva è la matrice della nostra ricchezza. La cronaca ce lo restituisce così nudo e crudo nella sua ferocia, da stordirci, trattandosi di un omicidio compiuto con la lentezza del dissanguamento e l’ignobile gesto dell’abbandono che lo rende, per una volta, diverso e peggiore delle altre vittime del lavoro – anche loro sbranate dalle macchine, travolte da un pilastro, precipitate nel vuoto – che accatastiamo tre volte al giorno nei rendiconti di cronaca, più di mille ogni anno. Perché stavolta non è solo questo il punto.
Stavolta è l’immagine persino insopportabile, eppure perfetta “come un diamante di luce” direbbe il colonnello Kurtz nel buio del suo Cuore di tenebra, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo fino all’omicidio, che lo rende possibile. È il potere dell’uomo sul mondo, in cambio della ricchezza, che non ammette di esser contrastato, considerandosi il padrone di tutti i viventi utili, dai bambini infilati nei cunicoli a scavare le terre rare per le nostre automobili elettriche, ai muli accecati per lavorare nel buio delle miniere. O arruolando intere generazioni di soldati per scavare le trincee di tutte le guerre da combattere per la proprietà di un giacimento, per i fatturati geopolitici della vittoria, compresi quelli della ricostruzione in nome e per conto di Sisifo, l’eroe dell’assurdo eternamente contemporaneo.
Uomini padroni senza morale, senza pietà. È questo che siamo sempre stati e continuiamo a essere persino sotto la crosta delle nostre società evolute, dove coltiviamo diritti civili, umani, politici, sindacali, li guardiamo sbocciare, li proteggiamo, facendo finta di non accorgerci del puro orrore che ci sta accanto, capace di sfruttare il corpo dello schiavo sino a cancellarlo. Dell’abissale insensibilità alla vita dell’altro, degli altri, quando osano intralciare un nostro vantaggio, e specialmente il nostro diritto a crescere anno su anno, guai a fermarsi. Disponibili sempre ad accendere e prolungare tutte le guerre al punto da farle diventare un contenuto abituale della nostra bilanciata dieta mediatica, che prevede le ricette della cucina e della moda, i campionari del sesso, le idiozie degli influencer, tutti capitoli equivalenti tra loro, o complementari, purché sempre presenti tra le portate del nostro insonne intrattenimento narrativo.
Siamo il vetro su cui quegli orrori scorrono come fa l’acqua quando piove. È solo la distanza il nostro ombrello, mentre precipitano le immagini di Hamas che taglia la gola a 1.200 uomini, donne, vecchi, bambini dopo essersi aperta un varco nei reticolati del nemico ebreo, il tempo di correre dentro al territorio dell’odio e tagliare la gola a tutto quello che è vivo e si muove. Ogni vivente un obiettivo e una vendetta.
Che da quel 7 ottobre precipita nell’infinito catalogo di ferro e fuoco della reazione israeliana che moltiplica per cento la punizione, per mille il massacro. Ogni vivente di Gaza un terrorista oppure un danno collaterale. Anche quella è guerra selvaggia e insieme guerra in purezza. Mentre noi facciamo ancora finta di distinguere tra armi consentite dalle convenzioni e quelle proibite, il fosforo nei proiettili o la fame nei campi di concentramento. Magari aspettando di vedere, ad altra latitudine, se diventerà vera la soluzione della “bomba nucleare tattica”, qualunque cosa voglia dire, da far esplodere lungo i 1576 chilometri di confine Russo-Ucraino.
Dice il colonnello Kurtz, creato dal nero inchiostro di Conrad, “che bisogna avere uomini capaci di utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passioni, senza discernimento”. Perché “l’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore”. Al punto da sopportarne “la pura, cristallina verità”.
Quegli uomini li abbiamo, siamo noi.
Disposti persino a rallegrarci per l’eleganza dei vertici convocati dai nostri capi– come è appena successo – nella piccola Disneyland del G7, con la sua spettacolare teoria di vertici, degustazioni, gite, giochi, musica, circondati da un apparato di sicurezza di 10 milauomini armati e droni e satelliti, mentre i barconi vanno a fondo nel blu dell’alto mare con il loro carico di inutili viventi e uno schiavo qualunque abbandonato per terra, davanti a casa, muore in compagnia del suo braccio amputato.