Toglieteci tutto, ma non la governabilità. Togliete il Parlamento, la sanità, la scuola pubblica, l’unità nazionale, il welfare, i diritti di chi lavora e quello al dissenso, ovviamente nel nome del popolo: poco importa se il risultato è una democrazia certamente non liberale, quel che conta è la governabilità. Suona bene, non desta preoccupazione, piace a destra ma anche a sinistra: insieme alla “stabilità” –almeno in parte sovrapponibile con stagnazione di interessi e gruppi di potere – la governabilità s’è fatta Sacro Graal della politica, nonché oggi obiettivo dichiarato e manifestamente frainteso della “madre di tutte le riforme”, ossia il premierato targato Giorgia Meloni.
L’ennesimo attacco alla Costituzione e al bilanciamento dei poteri disegnati nella Carta culmina quattro decenni di nefandezze del neoliberismo, non più digeribili se non con metodi sempre più autocratici, ovvero con la trasformazione della cittadinanza da soggetto attivo a mero oggetto di decisioni calate violentemente dall’alto. È il prodotto della grande truffa di questi tempi, tanto più credibile quanto apoditticamente ripetuta a ogni piè sospinto: la cosiddetta crisi della democrazia. Intendiamoci: non che non esista in assoluto una difficoltà a promuovere strumenti democratici quando il governo è reazionario e ideologicamente indisponibile al confronto come quello di Giorgia Meloni. Ma il rischio è confondere cause ed effetti, adottando involontariamente la narrazione sposata dai partiti per giustificare la propria inerzia, quando non passività. Mentre le riforme istituzionali svuotano il Parlamento di poteri e determinazioni, mentre il Paese si frantuma e assiste all’incedere della cosiddetta secessione dei ricchi, mentre i manganelli suppliscono al dialogo, la scuola si militarizza e la classe lavoratrice oscilla tra schiavitù – il caporalato – e sfruttamento – il lavoro povero –, mentre insomma si sfaldano sotto ai nostri occhi i capisaldi della Repubblica e i risultati di fondamentali lotte sociali, denunciare passivamente la crisi della democrazia è un po’ come rinunciare a combatterla. Va detto, oggi, con rinnovata forza, prima che sia davvero troppo tardi e lo scivolamento sia inarrestabile. Va detto nonostante chi, nel proprio grumo residuale di benessere, ha confuso anestetizzazione con stabilità, e più o meno strumentalmente brandisce rischi sociali per nascondere la stasi e i disastri reali: la democrazia offre i mezzi per recuperare potere e affrontare la complessità, ed è tempo di rimettere mano alla sua intera cassetta di attrezzi. C’è bisogno di riscoprire la disobbedienza civile, i referendum, la stessa indispensabile utilità del Parlamento; tocca, soprattutto, animare il conflitto, anima della democrazia, fatta di movimento e conoscenza. E va fatto con intransigenza morale, per segnalare la necessaria alternativa al potere esistente, l’indisponibilità a collusioni e ad ambiguità. Non è più consentito stare a guardare: la torsione autoritaria del Paese – e di tutto l’occidente abbracciato al neoliberismo – è reale e magistralmente nascosta da parole d’ordine rassicuranti e tecnocraticamente fungibili. La buona notizia è che la possibilità di reagire c’è: le opposizioni, incalzate qualche giorno fa dalle diagnosi e dalle proposte del Forum Disuguaglianze e Diversità al convegno “Verso una svolta autoritaria?”, organizzato con Volere la Luna, segnalavano la disponibilità a muoversi in modo unitario perché gli spazi di democrazia non si chiudano. Il tempo sta per scadere: è solo dall’alleanza tra politica ed effervescenza sociale che si può costruire un percorso alternativo. Di governo, ma molto prima di consapevolezza e di lotta.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità