Accertamenti in calo del 34% rispetto a prima del Covid. Entrate da controlli sostanziali crollate del 56% tra 2013 e 2023. Banche dati sfruttate in maniera parziale e insufficiente. Milioni di contribuenti che pur avendo dichiarato non versano le tasse, contando su successive rottamazioni a cui aderiranno per poi pagare solo la prima rata. Infine una riscossione – il momento in cui l’amministrazione dovrebbe mostrarsi in grado di pretendere il dovuto – che fa acqua da tutte le parti: tra 2000 e 2023 le cifre incassate si sono fermate al 14,6% del totale. L’ultima Relazione sul rendiconto generale dello Stato, pubblicata qualche giorno fa dalla Corte dei Conti, spiega numeri alla mano perché la lotta al nero continua ad avere le armi spuntate. E chi può – leggi lavoratori autonomi e piccole imprese – ha tutta la convenienza a evadere, con la ragionevole certezza di non subire conseguenze. Lo spaccato aiuta a “leggere” gli esiti di un sondaggio del Sole 24 Ore tra commercialisti e consulenti sull’appetibilità del concordato preventivo biennale, lo strumento con cui il viceministro all’Economia Maurizio Leo contava di allineare le partite Iva ai requisiti della piena fedeltà fiscale. Nove professionisti su dieci hanno fatto sapere che al momento i loro clienti non sono interessati. Pessime notizie per il governo Meloni, a caccia di gettito aggiuntivo per finanziare la prossima manovra: servono 18 miliardi solo per prorogare le misure in scadenza e dal concordato se ne attendevano 1,8, prima che l’ampliamento dei paletti di accesso convincesse ad azzerare per prudenza gli incassi previsti.
Ma le risposte alla survey sono tutt’altro che stupefacenti se lette insieme ai dati messi in fila dalla magistratura contabile. Un passo indietro: da due settimane i 2,7 milioni di contribuenti soggetti agli Indici di affidabilità fiscale (Isa) hanno a disposizione il software con cui calcolare il reddito da dichiarare per poter firmare entro fine ottobre l’accordo con l’Agenzia delle Entrate. Le simulazioni producono però cifre indigeste per chi al momento fa parte della platea degli “inaffidabili” – leggi i probabili evasori. Il ministero dell’Economia ha infatti scelto la linea dura, stabilendo che per aderire al concordato occorrerà raggiungere a fine biennio un punteggio Isa pari a 10, il più alto. Risultato: gli autonomi con punteggi sotto la sufficienza sarebbero tenuti a dichiarare – e pagarci le relative imposte – decine di migliaia di euro in più rispetto ai redditi attuali. Perché dovrebbero? Dal lato degli incentivi, il fisco offre in cambio l’esclusione da alcune tipologie di accertamenti (non tutte), insieme a piccoli benefici già concessi a chi ha pagelle fiscali da 8 o più. Troppo poco per accettare il salasso. Servirebbe una spinta più convincente: il timore, in caso di rifiuto, di verifiche che facciano emergere i soldi nascosti all’erario. Ma il tentativo di Leo di rispolverare il redditometro come spauracchio per i recalcitranti è naufragato tra gli strali del resto della maggioranza. E la previsione di un’attività di controllo “intensificata” su chi non aderisce lascia il tempo che trova se la situazione di partenza è quella descritta nei tomi della Corte.
Dai capitoli sulle attività di Entrate e Riscossione esce la descrizione di un loop senza uscita. Partiamo da chi dichiara almeno una parte del dovuto: di lì a versare le imposte (a meno che non si sia lavoratori dipendenti) il passo è molto lungo. Alcune categorie come le società di persone versano spontaneamente meno dell’80% dell’imposta. Peccato che quando il fisco se ne accorge e fa partire un avviso bonario i contribuenti tendano a far finta di nulla: in media, lo Stato riesce a farsi liquidare appena il 20% degli importi richiesti attraverso le comunicazioni di irregolarità.
Passo successivo: i controlli. L’Agenzia delle Entrate, a corto di personale causa blocco del turn over e pensionamenti non colmati dal piano di assunzioni, non riesce ad andare oltre volumi di accertamento “modesti tenuto conto dell’ampiezza e numerosità dei fenomeni evasivi che interessano un elevato numero di soggetti”. L’anno scorso, per dire, la quota di contribuenti Isa che hanno subito un controllo si è arenata in media al 4,2%. Tra gli oltre 97mila idraulici ed elettricisti a subire un accesso sono stati in 3.178, il 2,7%. E solo 863 sfortunati commercianti di alimentari al dettaglio, su un totale di 55.799, hanno ricevuto una visita. Se gli accertamenti ordinari su imposte dirette, Irap e Iva sono scesi a 175mila dai 267mila del 2019, pure quelli automatizzati sono diminuiti a 176mila dai quasi 240mila del pre pandemia. Le entrate da controlli sostanziali, pari a 6,1 miliardi nel 2013, l’anno scorso sono precipitate a 2,6.
Ma gli accertamenti sono stati almeno mirati grazie alle informazioni ottenute dall’incrocio delle banche dati? Nonostante il governo su questo fronte non abbia fatto passi indietro, proseguendo nella messa a punto di quello che in passato Giorgia Meloni bollava come “Grande fratello fiscale”, i magistrati contabili segnalano che l’analisi del rischio per far emergere posizioni sospette è ancora ai primi passi e “si rileva la mancata utilizzazione dei contenuti analitico-descrittivi delle fatture elettroniche e delle complessive movimentazioni finanziarie rilevabili dai conti bancari al fine di indurre in via preventiva il corretto adempimento degli obblighi tributari”. La conclusione è che “andranno attentamente monitorati gli effettivi risultati conseguiti”, al momento non disponibili. Il Fatto Quotidiano qualche settimana fa, attraverso un’istanza di accesso civico, ha chiesto alle Entrate molte informazioni in proposito ricevendo un diniego perché “consentirebbero di adottare comportamenti in grado di eludere i criteri di rischio utilizzati e permetterebbero di quantificare la probabilità di essere sottoposti” a quelle analisi.
Il quadro peggiora ulteriormente mano a mano che ci si avvicina al momento di riscuotere. Almeno un quarto dei già scarsi controlli finisce infatti in nulla, con il contribuente che non contesta l’avviso ricevuto né accetta di pagare con lo sconto. Così quella che sulla carta risulta come maggiore imposta accertata – 7,4 miliardi di euro nel 2022, 8,7 nell’ultimo anno pre Covid – si traduce in incassi pari a zero per lo Stato. Un buco determinato soprattutto dai piccoli (i contribuenti persone fisiche): su 2,9 miliardi di accertamenti realizzati a loro carico nel 2022, ben 1,1 risultano appunto definiti “per inerzia”.
Le cifre mancanti sono ovviamente destinate a finire a ruolo: l’Agenzia delle Entrate Riscossione dovrebbe a quel punto tentarne il recupero. Ma non è un mistero come la sua efficacia sia risibile: il volume complessivo delle riscossioni fra il 2000 e il 2023 è stato di 185 miliardi a fronte di un carico netto di 1.264 miliardi, pari al 14,36%. Del resto la politica, invece di darle più strumenti coattivi, ha via via allargato le rateizzazioni attribuendole quello che la Corte definisce un “improprio ruolo di ente di concessione di credito nei confronti di una massa di debitori a elevato rischio di inesigibilità”. Tradotto: chi non paga sa che alle brutte potrà accordarsi per farlo (con lo sconto) a rate. Per poi versare solo la prima e tornare a inabissarsi, tanto per accedere – a differenza di quanto avverrebbe con una finanziaria – non serve dare garanzie. Un fisco fin troppo “amico”, definizione assai gradita al governo che però stavolta rischia di pagarne le conseguenze. Vedendo naufragare il suo concordato in un flop simile a quello registrato vent’anni fa da una misura omonima fortemente voluta da Giulio Tremonti durante il secondo governo Berlusconi.