Si può fare. E si fa. Lontano dai tavoli ministeriali in cui la politica industriale del procrastinare e dismettere consegna l’economia alla stagnazione e le famiglie all’angoscia, in cui il diritto alla salute e quello al lavoro si scontrano mentre la difesa dell’ambiente e le esigenze contabili sono naturalmente contrapposte. Ecco, lontano da tutte le artificiose semplificazioni, maturano esperimenti di sviluppo. Giusto. E cioè attento ai luoghi, alle persone, ai saperi: non solo “crescita”, men che meno solo mercato. Piuttosto, la prova che il Paese è meglio del racconto che ne viene fatto, e soprattutto che l’alternativa al neoliberismo dominante esiste eccome: ma va riconosciuta, indirizzata, coltivata. Scegliendo di ritagliarsi un ruolo.
Succede, per esempio, in Sardegna, la regione spesso considerata simbolo della fatica delle aree periferiche e dell’amnesia del potere centrale. Eppure, proprio qui è nata e prospera forse la sola impresa europea in cui la questione di genere non esiste: è la Cooperativa allevatrici sarde, 11.800 donne, per lo più mogli di pastori, che già negli anni Sessanta capiscono l’importanza dell’associarsi e far leva sulla specificità del territorio per uscire dalla trappola degli stereotipi costruendo invece visione e futuro. Mezzo secolo dopo, l’intuizione si conferma corretta: la cooperativa oggi gestisce 24 negozi in aree altrimenti abbandonate, distribuisce i prodotti locali, valorizza i legami tra mestieri, luoghi e persone ed è considerata l’impresa femminile più grande dell’intero continente.
La loro storia è stata protagonista di “Desiderabili Futuri. Senza disuguaglianze, per un mondo sostenibile”, una quattro giorni di incontri e dibattiti organizzati a Oristano da Legacoop, Forum Disuguaglianze e Diversità e Dromos Festival, per ribadire la centralità delle cooperative come motore di cambiamento. Non solo a parole. Prova ne sono le ragazze e i ragazzi di “Noi altri”, con disabilità anche importanti eppure capaci di aprire un ristorante in cui la diversità è elemento di comunione e non di isolamento, diventato un punto di riferimento per l’intero territorio regionale: qui “gli altri” sono le persone normodotate. No, non è un esperimento di beneficenza: la cooperativa ha nove persone assunte, una rarità in qualsiasi ristorante del Paese, figuriamoci se si parla di disabili. Così come è un raro esempio di consapevolezza la scelta di strumenti simili al workers buyout, cioè il salvataggio e la rigenerazione dell’impresa da parte di lavoratrici e lavoratori: è successo anche questo, in Sardegna, tra addette e addetti alla sicurezza della Saras, il gigante della raffineria. Adesso che si sono costituiti in una cooperativa mettendo insieme le loro specializzazioni, la loro dignità lavorativa non è più legata soltanto a un committente perché sono in grado di offrire i loro servizi a un mercato più ampio, ergo di guadagnarsi libertà. Ma le parole “mercato” e “impresa” vanno maneggiate con attenzione in questi casi, a dispetto dei successi di business. Il mondo della cooperazione – che in Italia conta 59.027 realtà, occupa circa 1,2 milioni di addetti e genera un valore aggiunto di 28,6 miliardi di euro – non può essere solo soggetto economico: deve invece necessariamente porsi come attore politico-culturale, portatore di modelli di democrazia interni coerenti con quelli che propone per le comunità su cui impatta, a partire da modalità e rapporti di lavoro, dal ricambio generazionale e dall’equilibrio di genere, per essere l’esempio di un futuro di giustizia sociale e ambientale. Questo il messaggio emerso dal serrato confronto di Oristano, grazie ai giovani a cui era stato dato il potere di orientare il Festival. Questo insegnano le storie della Sardegna; questa è l’alternativa che già esiste, e di cui il Paese ha disperatamente bisogno per rimettere in circolo fiducia.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità