Mi sono imbarcato sulla Sea-Watch 5 da pochi giorni. Mi trovo qua per un motivo strano: ho deciso di fare uno spettacolo di teatro sui salvataggi delle ong nel Mediterraneo centrale. È una ong tedesca, quindi si comincia alle 7, si pranza alle 12 e si cena alle 18. Orari davvero assurdi, questi tedeschi. Una volta il pranzo è stato servito alle 12.03 e lo chef si è scusato con tutti alla radio. Il cibo è completamente vegano e, quando prenderemo il largo, ogni forma di alcolico sarà vietata. Che fatica. Io, per sicurezza, mi sono portato una salsiccia passita da casa.
L’obiettivo di questi giorni è che l’intero equipaggio sia perfettamente preparato per quando partiremo per la SAR, la Search and rescue zone, quella porzione di mare in cui è più probabile che qualcuno abbia bisogno di essere raccolto dall’acqua prima che sia troppo tardi. Per tutto il giorno facciamo lezioni teoriche e i cosiddetti drill, esercitazioni pratiche, che, per me che sono un attore, sono particolarmente affascinanti, perché bisogna fare finta di essere in un’emergenza. E le persone, quando fanno finta, sono goffe e belle in un modo che mi commuove.
Nel corso di una esercitazione sull’abbandono della nave il primo ufficiale ci racconta cosa bisogna fare per sopravvivere su una scialuppa. Dice che la prima cosa da ricordarsi è che gli esseri umani non sono fatti per stare nel mare, che è un deserto d’acqua. Poi aggiunge che, nel caso di un’emergenza, noi siamo privilegiati: siamo europei, qualcuno ci verrebbe sicuramente a recuperare nel giro di poche ore. Altrettanto non si può dire di chi tenta di raggiungere le nostre coste.
Dice poi che le navi sono luoghi radicali: ci sono situazioni in cui è meglio lasciare qualcuno morire dietro una porta stagna per salvare tutti gli altri.
Tuttavia il corso più sconvolgente è quello intitolato Mass casualty plan, il piano che si attiva nel caso in cui ci siano più di tre feriti gravi. Una cosa che ultimamente rischia di accadere sempre più di frequente, perché negli ultimi mesi nel Mediterraneo si osserva una maggiore presenza di piccole barche di legno con un ponte coperto. In questa zona spesso ristagna il carburante che, mischiandosi all’acqua di mare, produce miasmi tossici e le persone che viaggiano sotto coperta vengono trovate incoscienti o gravemente intossicate e si rischia di dover imbarcare molti pazienti tra la vita e la morte.
In quel caso la nave viene divisa in quattro zone: verde, gialla, rossa, blu. Nella zona verde viene mandato chi sta bene. In quella gialla, presidiata da un infermiere, chi ha un problema grave, ma non è in pericolo di vita. La zona rossa, dove opera un medico, è per i casi gravi: persone che hanno bisogno di rianimazione, in un concreto pericolo di vita. Poi, c’è la zona blu, alla quale non è attribuito né un medico né un infermiere, ma altri membri dell’equipaggio che accettano di accompagnare qualcuno che non conoscono fino alla morte.
Perché lì vengono mandati coloro che sono morti o che sono vivi ma irrecuperabili. In quel caso bisogna smettere di occuparsi di loro e concentrare le proprie energie sugli altri pazienti. Bisogna lasciarli morire. Anche se gridano, anche se implorano. Le navi sono luoghi radicali. La zona blu è a sua volta divisa in due diversi luoghi: uno è un dormitorio. Qui le persone, secondo questo piano, possono morire in un luogo protetto, appartato, con qualcuno che li guarda per un’ultima volta. La restante parte della zona blu, invece, è sul ponte, di fianco alla zona di sbarco. Un luogo caotico, dove, se si dovesse verificare un caso del genere, si muore in mezzo alle urla e alla confusione. Ha però un pregio: è di fianco alla zona gialla e l’infermiere può somministrare degli analgesici e rendere l’agonia meno dolorosa. Solo durante la reale emergenza si valuterà se è meglio far morire qualcuno nel caos, ma sedato, o pieno di dolori ma in un luogo raccolto. Io non avrei dubbi.
La domanda più difficile, mi dice l’operatrice medica che ha elaborato questo piano, è: quale è il momento in cui dobbiamo smettere di rischiare le nostre vite perché non c’è quasi speranza di salvarne altre? Vale la pena rischiare la vita cercando di entrare con un respiratore sotto coperta di una nave piena di persone che probabilmente sono già morte?
Sono domande vertiginose.
Mentre ci prepariamo, qua, penso che forse già qualcuno dall’altra parte del mare si prepara a sua volta a partire. Chissà come si preparano, cosa stanno facendo, cosa stanno pensando. Chissà se si domandano cosa pensiamo noi dalla parte opposta del mare. Chissà se e quando ci incontreremo. E, quando ci incontreremo, cosa ci diremo. Come ci guarderemo. Per il momento l’unica cosa che possiamo guardare, dal ponte più alto della nave, è il mare, questa enorme zona blu, in cui la gente grida e affoga mentre siamo convinti che ci siano cose più importanti di cui occuparci.
1 . continua